Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Febbraio, 2019

Naturale il “terzo sesso”? Replica a Donata Borgonovo Re

di il 22 Febbraio 2019 in famiglia con Nessun commento

Su l’Adige dell’11 gennaio scorso è pubblicato con evidenza, fin dalla prima pagina, un articolo di Donata Borgonovo Re, già difensore civico, già relatrice invitata dalla diocesana Consulta dei Laici qualche tempo fa su temi attinenti etica e politica, già consigliera e assessora provinciale del PD, che critica la posizione di alcuni (secondo me dei più) secondo la quale in natura esistono solo maschi e femmine. E porta i casi di alcune tribù “primitive” nelle quali un “terzo sesso” è riconosciuto e in qualche caso tuttora codificato.

Per la verità non occorreva andare a cercare culture “primitive”; basta osservare le nostre società, che non solo codificano la possibilità di cambiare sesso, ma riconoscono più di tre condizioni sessuali, per di più con possibilità di cambiare condizione, con tanto di riconoscimento culturale celebrato in manifestazioni di orgoglio, come quella del “gay pride” e tributato dalla cultura egemone “culturalmente corretta”. La tesi della Borgonovo Re rende evidente una gran confusione di ragionamenti.
Innanzitutto il fatto che persino in tribù primitive esistano accettate forme di identità sessuale diverse da quelle di maschio e femmina non elimina il contributo che a tale accettazione sia dato dalla cultura, anzi. Borgonovo Re è vittima del pregiudizio secondo il quale nelle tribù primitive si sia in uno “stato di natura”. Nulla di più falso e l’antropologia culturale ha da oltre un secolo contribuito a smentirlo.

In secondo luogo la natura presenta situazioni normali e situazioni anomale. L’umanità ha fatto grandi progressi medici nelle scienze biologiche e umane, lungo la storia, per correggere le condizioni anomale considerate negative. La valutazione se siano negative o positive ha una componente culturale e quindi può variare tra società e nel tempo. Ma alle condizioni giudicate negative si cerca di porre rimedio. Il giudicare negativa una condizione non implica giudicare moralmente in modo negativo il portatore di anormalità, attribuendogli colpevolezza. A differenza della stragrande maggioranza delle persone, nella stragrande maggioranza delle culture, identità sessuali non corrispondenti alla sessualità biologica (criterio ultimo quello genetico), hanno trovato nella nostra società o negazione di anormalità o giudizio positivo o comunque non negativo. Donata Borgonovo Re è quanto meno nella prima posizione.

Credo che Donata Borgonovo Re debba rispettare, senza trinciare giudizi di ignoranza e di insopportabilità, coloro (e mi annovero fra questi), che giudicano negativo che l’identità sessuale si maturi in modo difforme da quella biologica e che per evitare tale negatività si cerchi di creare le condizioni perché essa non sia alimentata, specie nel periodo delicato della socializzazione (famiglia, scuola, politiche culturali). E che nelle scuole italiane siano stati avviati corsi formativi che mirano a far mutare il giudizio verso tali condizioni da negativo a positivo è testimoniato in moltissimi casi, per non parlare di finanziamenti pubblici e privati a tante altre iniziative culturali, produzioni televisive e cinematografiche. Si cerca di far cambiare i giudizi culturali ed etici. Dov’è il progresso se si passa al considerare un’anomalia da accettare una condizione che altri reputano da correggere? Forse che qualcuno desidera che uno dei suoi figli maturi un’identità sessuale difforme da quella biologica? I più certamente no. Semmai i più possono non ritenere moralmente colpevole tale condizione, ma non desiderabile. E se non è desiderabile, perché non agire per evitarla? La società non è innocente in merito al tasso di anormalità che in essa si esprime, proprio perché la natura tende a agire in modo uniforme (pur con eccezioni). Se in alcune società i tassi di anomalia sono più alti che in altre, è perché in esse si considera “normale” ciò che in altre non lo è o, se pur si considera anormale, non è più giudicato negativamente. Per lo più non è un fatto di natura (anche se vi sono ipotesi al riguardo circa il tramonto delle civiltà), ma un “fatto sociale”, di cui chi ha potere di incidere sulla società porta responsabilità, non assolta con la sola umiltà nei giudizi, come pare concludere l’articolo in questione.

Replica a Duccio Canestrini su immigrazione in Trentino

di il 22 Febbraio 2019 in comunità, migrazioni con Nessun commento

Non è la prima volta che dissento da quanto scrive Duccio Canestrini, del quale l’Adige ha pubblicato un appello nell’edizione di domenica 6 gennaio.

Prima considerazione di Canestrini: un popolo non può considerare sua proprietà il territorio nel quale vive, da considerare , invece,“res publica”, per la quale semmai v’è il dovere di bene amministrare. Ma cosa significa bene amministrare la res publica? Elemento essenziale della buona amministrazione di un territorio è regolare entrate e uscite. Non esiste governo di un territorio senza il controllo dei suoi confini: principio della Teoria Generale dei Sistemi che uno scienziato sociale dovrebbe conoscere. Il fatto che il territorio di un popolo non sia una “proprietà privata”, ma pubblica non cambia il soggetto cui inerisce la proprietà, il popolo trentino per il Trentino e il popolo italiano per l’Italia. E il popolo si dà le regole con le quali fare sintesi delle diverse valutazioni dei suoi membri. Se Canestrini non vuole limiti all’immigrazione, non per questo può imporre la sua volontà all’intero popolo.

Seconda considerazione di Canestrini: una comunità responsabile si arricchisce della diversità e quindi è giusto che si adoperi pubblicamente per investire in nuovi rapporti. Non 150 persone ma 1500 dovrebbero essere pagate dall’ente pubblico per trarre giovamento da questa “nuova linfa”. Ma non ogni diversità arricchisce. Ci sono diversità che fanno arretrare, che introducono conflitti, aumentano devianze, propongono valori opposti. Un popolo potrebbe facilitare l’entrata nel suo seno di “diversità”, ma su quali e su quanta dovrebbe poter decidere. Un ospite è gradito se invitato, non può più essere ospite né tantomeno essere gradito se si introduce senza invito. Se chi entra è un perseguitato o in situazione di pericolo per la sua vita, può essere accolto per umanità, ma se invece è uno che vuole insediarsi in territorio altrui perché vuole godere dei vantaggi del vivere in un popolo diverso dal suo, deve chiedere il permesso di farlo. E la gran parte gli attuali immigrati non è perseguitata o in situazione di pericolo per la vita,; nel loro ambiente non sono nemmeno fra i poveri, ma hanno capacità di iniziativa oltre alle migliaia di euri o di dollari che servono per pagare i trafficanti che organizzano il viaggio clandestino.

Terza considerazione di Canestrini: i trentini sono il prodotto di ondate migratorie di vario genere (Reti, Romani, Longobardi, ecc.). Non hanno quindi senso “ossessioni identitarie”. Ci portano alla “tristezza dell’uniformità”. Tuttavia non vedo pericolo di uniformità, ma semmai di dissoluzione di ogni identità culturale. Da studente di sociologia mi si insegnava che la soglia di diversità massima senza creare conflitti era stimata nel 5% della popolazione. Ora in pochi anni siamo arrivati a circa il doppio e per di più composto da giovani che fanno figli, mentre i trentini sono anziani e fanno meni figli di quanto necessario per rimpiazzare i morti. E il Trentino ha già avuto, in antecedenza, forti immigrazioni da altre regioni, specie nel secolo scorso e specie a Trento. Che poi ai reti si siano storicamente sovrapposti altri popoli nulla dice sul come i reti avessero apprezzato tali immigrazioni o come i romani avessero apprezzato quelle di popoli barbari di stirpe germanica. Si trattò di migrazioni subite dalle popolazioni locali e non vedo perché se le hanno subite allora, sia bene che le popolazioni locali le subiscano oggi, pena essere giudicati chiusi e “addormentati”. Certo, identità e appartenenze sono per gran parte “costruzioni sociali” legate alla storia dei popoli, ma non per questo non meritano rispetto e comprensione, specie dagli scienziati sociali e della cultura.

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