Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

Continua »

referendum modifiche costituzione

Avvenire e Vita Trentina su referendum costituzionale: mancano riferimenti a dottrina sociale cristiana

Lettera al Direttore di Vita Trentina Diego Andreatta.
Quando uscirà il prossimo numero di Vita Trentina l’esito del referendum costituzionale sarà già stato acquisito e commentato. Il suo editoriale sul numero del 4 dicembre, così come la linea in merito seguita da Avvenire, mi ha sollecitato una riflessione. Nonostante che l’Adige del 2 dicembre legga nel suo editoriale un implicito invito a votare SI’ (sinceramente non l’ho colto, neppure nei riferimenti agli effetti del voto sul contesto europeo), l’atteggiamento suo e di Avvenire, come il richiamo del Segretario della Conferenza Episcopale Italiana a badare con razionalità ai contenuti, mi sono apparsi “neutrali”, al di là delle convinzioni personali. Ciò che mi ha sorpreso è, però, che nella valutazione dei contenuti della legge costituzionale non si sia fatto riferimento ai principi, ai valori, proclamati dalla dottrina sociale della Chiesa, anche quella degli anni dopo il Concilio Vaticano II. A mio avviso due principi guida del pensiero sociale cristiano erano chiaramente rilevanti nelle valutazioni da dare, quello di una democrazia partecipativa e quello della sussidiarietà verticale. Non che manchino, nel suo riferire delle diverse posizioni, a favore o contro, citazioni della democrazia partecipativa e (indirettamente, parlando di centralismo e regioni) del principio di sussidiarietà, ma è mancato l’esplicito invito ai cristiani di valutare i contenuti della legge costituzionale a partire dalla coerenza con la dottrina sociale cristiana. Il togliere competenze alle regioni per concentrarle nello Stato, il potere dello Stato di intervenire sulle residue competenze regionali, semplicemente “dichiarando” l’interesse nazionale, sono misure coerenti con il principio di sussidiarietà? A me non pare, ma doveva essere questo il punto di partenza per una valutazione da parte dei cristiani. E’ sufficiente aver creato un Senato con rappresentanze di Consigli regionali e Comuni per far dire che nel complesso il bilancio in termini di rispetto della sussidiarietà è positivo, se si tiene conto delle competenze assai ridotte affidate al Senato e poco connesse con i problemi da affrontare in sede regionale?

Simile il problema per quanto concerne il principio di democrazia partecipativa. Di fronte alla crisi della funzione della rappresentanza parlamentare, sempre più soggiogata alle decisioni dell’Esecutivo, va in direzione del valorizzare la democrazia partecipativa l’aumentare il potere del Governo di dettare l’ordine del giorno del Parlamento, non più solo con decreti legge per i quali non esistono i presupposti, non più solo con l’uso di leggi delegate estremamente generiche, non più solo con l’uso di maxi-emendamenti sui quali porre la fiducia per stroncare ogni possibilità dei parlamentari di vedere discussi degli emendamenti, ma anche con il potere di dettare l’agenda parlamentare semplicemente dichiarando “importante” una legge? A me non pare. E’ sufficiente a compensare ciò la possibilità di indire forme consultive di referendum e garantire ai disegni di legge di iniziativa popolare di essere discusse (pur rendendo più difficile presentarli, essendo necessario il triplo di firme? A me pare di no. Anche ora le opposizioni hanno il diritto (per Regolamento parlamentare) di veder discussi propri disegni di legge, ma il tutto si traduce nel metterli all’ordine del giorno per poi rapidamente bocciarli. Sono parziale nel mio giudizio? Se ne discuta, ma a partire dal valore della democrazia partecipativa enunciato e fatto proprio dalla dottrina sociale cristiana. Poi in quanto laici cristiani ciascuno agirà come richiede giusto in coscienza, ma questa va “illuminata”, quanto meno richiamando i principi di etica sociale cristiana.

E’ bene che le diocesi si impegnino in corsi di dottrina sociale, è bene che tra i compiti della Consulta dei laici vi sia anche quello di valutare situazioni e iniziative politiche alla luce della dottrina sociale cristiana, ma se, di fronte a una sfida che divide, anche i cristiani, non si lavora per cercare valutazioni coerenti con il pensiero sociale cristiano, preferendo soluzioni che richiamano il comportamento di Ponzio Pilato, per evitare di scontentare una parte o l’altra, la portata dei corsi e delle poche riunioni della Consulta rimane sterile.

Voto NO al referendum costituzionale: vere le conseguenze negative per il Trentino?

L’editoriale di Pierangelo Giovanetti su l’Adige del 7 dicembre rappresenta assai bene la reazione della maggior parte dei leader di opinione trentini alla vittoria del NO al recente referendum costituzionale: rileva il NO ma rileva soprattutto la diversità di voto fra Trentino e Alto Adige. Le conseguenze che se ne traggono non sono a mio avviso convincenti.

La prima conseguenza che Giovanetti segnala ai lettori è la dimostrazione che ai trentini interessi meno che ai sudtirolesi (di lingua tedesca) la difesa dell’autonomia, assumendo come dato incontrovertibile che la nuova legge costituzionale fosse una difesa “degli interessi territoriali” dell’identità e dell’autonomia. Non so da dove tragga questa certezza. Il rimando per le regioni ad autonomia speciale a una revisione statutaria fatta “di intesa” fra Stato e Regioni non certifica certo che il senso della “revisione” sia inteso in direzione di potenziamento dell’autonomia, quando le modifiche costituzionali per le altre regioni andava proprio in direzione opposta. Se la legge avesse voluto non applicare alle regioni ad autonomia speciale le nuove norme, lo avrebbe potuto dire, ma non lo ha fatto. Di fronte a una proposta governativa dell’obbligo di “adeguare” gli Statuti, i parlamentari delle regioni ad autonomia speciale avevano ottenuto l’obbligo di “revisione”, “di intesa”, ma senza che la procedura dell’intesa comporti per le autonomie speciali diritto di veto in caso di disaccordo. Il prezzo di tale concessione procedurale è stato il sostegno alla legge anche in fase di referendum. I sudtirolesi hanno obbedito alla SVP, i trentini non hanno fatto altrettanto nella stessa misura nei confronti del PD e del PATT. Questione di “disciplina”, non di attaccamento all’autonomia. E’ la sua seconda considerazione, condivisibile e confermata dai fatti e non solo in questa occasione.

Ma a questa il Direttore de l’Adige aggiunge quella che la “diversità trentina” rispetto al resto del Nord Italia sarebbe sparita. In realtà è da tempo che in indagini condotte su identità e orientamenti di valore dei trentini, i cui risultati sono pubblicati, viene constatata la progressiva “italianizzazione” del Trentino. A una debole specificità di identità ha fatto finora da correttivo, da parziale compensazione, un forte sentimento di appartenenza provinciale-regionale. L’anomalia “trentina” da Giovanetti evocata solo in termini di voto politico (citando la diversità di scelte elettorali in epoca di “berlusconismo trionfante” – ma nel 1994 non è andata così) è semplicemente legata alla scelta della SVP , dopo la crisi della DC, di allearsi con la sinistra, trascinando (con qualche resistenza) anche il PATT, e ciò in rapporto ai difficili rapporti in Alto Adige con partiti come AN e FI. Si può aggiungere una temporanea sopravvivenza del sistema DC più forte che altrove (vedasi Dellai), che ha più a che fare con la capacità di garantire rendita politica che con una “diversità” culturale trentina.

Senza un progetto identitario specifico, ebbi modo di scrivere a conclusione di tali indagini, rischia di essere compromesso a lungo termine anche il forte sentimento di appartenenza e di autonomia, ma non mi pare che si possa dire che il risultato del voto referendario dimostri che tale processo sia già compiuto.

E vengo alla terza considerazione di Giovanetti: la difformità di comportamento elettorale renderebbe chiara la diversità di situazione fra Trentino e Alto Adige. Sinceramente non credo che a Roma o a Milano non si siano finora accorti di tale diversità: basta osservare i risultati di tutte le elezioni politiche o basta ricordare il conflitto degli anni Sessanta. Che il Trentino sia parte della nazione italiana e che i sudtirolesi di lingua tedesca siano parte della nazione austriaca ce lo ricordano uomini come Degasperi e Piccoli, trentini leader nella nazione italiana; ce lo ricordano uomini come Magnago, la storica avversione all’unità regionale e lo stesso Statuto della SVP, che rivendica ancora il diritto all’autodeterminazione. Non si possono dissimulare le diversità con un desiderato voto simile a un referendum. Serve, invece, mantenere vitale la Regione, legame istituzionale tra “diversi” a seguito del patto Degasperi Gruber. Non è sostituibile da nessuna “euregio”, data la vigente configurazione dei poteri, delle sovranità.
Per questo penso che se l’esito del referendum è il “de profundis” della Consulta e della Convenzione per arrivare a un “Terzo Statuto” è solo una “benedizione”. Di fronte alla prospettiva di indebolire ancora la Regione, configurandola solo come organismo di collaborazione tra le due Province, meglio mantenere la Regione com’è, cessando lo sconcio della sua spartizione di fatto di guida politica (l’alternanza dei Presidenti delle Province) e di risorse. Si celebra l’apprezzamento di Kompatscher per la collaborazione fra le due Province, ma esso è come il bacio della morte: tale collaborazione non necessita di un Regione vitale; va bene, ma da sola rappresenta la morte della Regione, che resta, se resta, simulacro solo formale (l’unicità formale dello Statuto).

Da ultimo la considerazione di Giovanetti sulle “colpe” dei partiti che ufficialmente erano per il SI, ma con parti dissenzienti. Può darsi che il PD non sia il “baricentro della politica e del sistema autonomistico insieme alla SVP” (il ruolo che aveva un tempo la DC), ma questo non certo perché una sua parte ha testimoniato un attaccamento alla Costituzione, a una concezione partecipativa della democrazia, a una Repubblica che valorizza le autonomie (tutte, non solo quelle del proprio orto). Questa parte dissenziente (come quella entro il PATT) non ha sacrificato i principi, i valori della Costituzione, alle convenienze di potere. E probabilmente il suo servizio alla comunità è stato migliore!

Tipologia degli elettori di fronte al referendum costituzionale: note critiche

sul Trentino del 24 ottobre Paolo Mantovan propone una tipologia delle posizioni assunte sul prossimo referendum sulle modifiche costituzionali. Il noto metodologo della ricerca sociale Paul Lazarsfeld suggerirebbe di risalire dalla tipologia allo “spazio di attributi” del quale la tipologia costituisce una “riduzione” (che nel caso in esame verrebbe qualificata come “pragmatica”, ossia basata su una valutazione della ricorrenza dei vari tipi). Vorrei seguire il suggerimento di Lazarsfeld, ripercorrendo la tipologia di Mantovan. Il tipo “modernisti” deriva da una polarità della dimensione “cambiamento come progresso – cambiamento non equivale a progresso”. Il tipo “puristi” come descritto ha una doppia dimensione: “sacralità – non sacralità della Costituzione” e “legittimazione – non legittimazione dell’attuale maggioranza parlamentare”. Il tipo “schifati” segnala la dimensione “il meglio è nemico del bene – non si deve in alcun caso votare a favore di modifiche costituzionali fatte male”. Il tipo “non succede nulla” deriva dalla dimensione “rilevanza o meno del voto referendario sulla situazione politica italiana”. Il tipo “agnostici” segnala la dimensione “rilevanza o meno del voto referendario sulla situazione economica”. Il tipo “regionalisti” deriva dalla dimensione “rilevanza o meno del voto referendario sulle autonomie regionali anche speciali”. Il tipo “soldati” segnala la dimensione “dipendenza o meno del voto referendario dall’appartenenza di partito o di schieramento politico”. Infine l’ultimo tipo “i convinti in buona fede” deriva dalla dimensione “dipendenza o meno del voto referendario dalla valutazione sui suoi contenuti intrinseci”.

Lo spazio di attributi deriva dalla combinazione di tutte le posizioni relative alle nove dimensioni utilizzate da Mantovan (almeno per come sono riuscito a identificarle): uno spazio assai complesso, a nove dimensioni, ciascuna delle quali misurata come minimo in modo dicotomico. Non è detto che ciascuna delle nove dimensioni sia indipendente dalle altre e Lazarsfeld, come ogni sociologo attrezzato nelle tecniche di elaborazione, metterebbe in campo analisi multivariate per capire quante siano le dimensioni tra loro indipendenti e quali, invece, siano tra loro strettamente covarianti. Ma anche senza tali analisi, non risulta difficile pensare che buona parte delle nove dimensioni segnali atteggiamenti non sovrapponibili neppure solo empiricamente. Si può pensare che giudizio su sacralità o meno della Costituzione si associ alla dimensione relativa al legame tra cambiamento e progresso e forse anche al giudizio sulla legittimazione dell’attuale Parlamento, oppure che la valutazione degli effetti politici del voto referendario si associ a quella degli effetti economici, o ancora che il voto per appartenenza politica sia connesso al voto non dipendente dai contenuti, ma altre correlazioni strette sembrano difficili. Permane sempre uno spazio di attributi a cinque dimensioni. Misurate dicotomicamente, se due dimensioni, incrociate individuano quattro tipi possibili, se sono tre essi diventano otto, se sono quattro diventano sedici e se sono cinque diventano trentadue, derivanti dalla diverse combinazioni, ciascuna senza significative sovrapposizioni. I possibili tipi individuabili in base alle dimensioni usate da Mantovan sono come minimo trentadue.

Mantovan ne cita otto, ciascuna corrispondente a una polarità di ciascuna dimensione, considerata però disgiuntamente dalle altre. La sua capacità giornalistica sicuramente gli avrà consentito di individuare gli otto tipi principali, ma anche la sua abilità si sarebbe giovata dal ricorso a logiche combinatorie, che appaiono assai probabili nella realtà, almeno sulla base di quanto si legge, si sente e si vede nella stampa e nei mezzi radio-televisivi. Ciò consentirebbe, tra l’altro, di rappresentare meglio la realtà, con divisioni meno nette di come rappresentate da Mantovan. I vari motivi delle propensioni o delle scelte per il Si o per il No possono tra loro combinarsi e incrociarsi, anche per la varietà eterogenea dei cambiamenti costituzionali da valutare.

Quanto scritto non suoni a critica dell’analisi di Mantovan, in ogni caso utile, ma come sollecito a ulteriori approfondimenti.

Referendum costituzionale e gli interessi schierati per il sì

Si moltiplicano in crescendo le prese di posizione a sostegno dell’approvazione dei cambiamenti della Costituzione che gli italiani saranno chiamati ad ottobre a valutare e l’Adige le riporta dedicando ampio spazio. Nel solo numero di martedì scorso due lunghi interventi di Ugo Rossi e di Carlo Ancona, il primo che illustra i grandi vantaggi delle nuove norme per il Trentino e il secondo di critica ai magistrati e ai giuristi che si sono pronunciati motivatamente per il no al referendum.

Resto confuso di fronte alle argomentazioni del Presidente della Giunta Provinciale, che ripete quello che ha già detto la ministra Boschi. Capisco, però, che un Presidente la cui permanenza in ruolo dipende dal partito che comanda a Roma e che, via Governo, ha imposto i cambiamenti, si sia acconciato a lodare, tacendo, invece, sulle gravi lesioni che le modificazioni costituzionali prevedono per la nostra autonomia. Rossi tace sul fatto che la subordinazione dell’entrata in vigore delle nuove norme, se approvate dal referendum, alla revisione degli Statuti delle regioni ad autonomia speciale, non toglie il dovere di adeguare tali Statuti alle nuove norme costituzionali, che sottraggono competenze cruciali (si pensi ad ambiente e a energia) a tutte le regioni, comprese quelle ad autonomia speciale. Rossi ancora tace sul fatto che le nuove norme prevedono la possibilità che il Governo invochi “l’interesse nazionale” per intervenire sulla legislazione di tutte le regioni (comprese quelle ad autonomia speciale), un arretramento che riporta al centralismo di un tempo, il cui superamento era stato giustamente presentato come un grosso passo avanti dell’autonomia. Rossi vanta il permanere del principio dell’ ”intesa” per le modifiche statutarie, ma come ben sa, il principio dell’intesa non dà potere di veto; le autonomie speciali dovranno cedere qualcosa nel campo delle loro competenze attuali, anche se c’è il principio dell’intesa, come anche il caso della Valdastico ha dimostrato. Resto confuso perché non riconosco nelle considerazioni di Rossi, del PATT, uno spirito autonomista chiaro e verace.

Ciò che in un primo momento mi ha sorpreso, ma poi, invece, ho capito che rientra nella piena normalità, è l’appoggio dichiarato alle nuove norme costituzionali da parte di Confindustria e di Coldiretti. Mi è bastato ricordare episodi di storia contemporanea bene analizzati, quando ero studente, dal prof. Giorgio Galli, docente a Trento. Di fronte alle agitazioni sociali del primo dopoguerra (a partire dal 1919), provocati anche dalla crisi economica conseguente alle devastazioni belliche, Mussolini e più in generale i leader fascisti trovarono il sostegno degli industriali e degli agrari. Le organizzazioni di imprenditori si curano più dei propri interessi che dello stato della democrazia. Non a caso la ministra Boschi, a Bolzano, di fronte all’Assemblea degli industriali con il suo presidente nazionale Boccia, ha vantato la rapidità decisionale e la stabilità di governo che le nuove norme garantirebbero. Conta l’efficienza, poco importa se per ottenerla si deve abbassare il livello di democraticità del sistema politico. Agli agrari dei primi anni ’20 si aggiungono ora i Coldiretti, che non sono più solo i “coltivatori diretti”, ma nella classe dirigente, sono titolari di imprese assai simili a quelle degli “agrari” e perciò con i medesimi interessi, cui si aggiungono promesse governative di tutela delle loro produzioni. Spero solo che la medesima posizione non assumano le organizzazioni degli artigiani e dei commercianti, forse meno condizionabili. Capacità di decisione rapida, mettendo in secondo piano il tasso di democraticità, è anche quello che invoca il giudice Carlo Ancona. Vorrei timidamente osservare come le nuove norme non impediscono agli eletti, anche se nominati, di cambiare opinione nel corso dei cinque anni di legislatura: possono costituire gruppi autonomi che non obbediscono più a chi li ha nominati. Il principio maggioritario nelle leggi elettorali vige dal 1994 e non è valso a scongiurare crisi di governo e interruzioni di legislatura. Non lo è valso neppure il potere di nomina dei parlamentari da parte dei vertici di partito; si pensi all’attuale legislatura: eletti preordinati nelle liste del medesimo partito che hanno poi costituito partiti e gruppi parlamentari autonomi. All’aver fatto diminuire il livello di democraticità nella scelta dei parlamentari (fino a infrangere la Costituzione) non ha corrisposto un maggior controllo di parlamentari da parte dei leader, alimentando trasformismi indegni. Come si fa a dire che con le nuove norme costituzionali certamente si avrà maggiore stabilità dei Governi?. Certo si saprà chi ha vinto la sera dello spoglio delle schede, ma non si saprà quanto a lungo il Governo durerà.
La macchina della propaganda per il sì è stata avviata con forze soverchianti governative ed economiche. Spero che i giornali e in generale i mass-media diano spazio anche a chi obietta!

(scritto il 7/6/2016)

Pombeni, VitaTrentina e referendum costituzionale

Su Vita Trentina del 29 maggio, rubrica Dialogo aperto, Paolo Pombeni propone sue riflessioni in merito ai cambiamenti della Costituzione che in ottobre verranno sottoposti a conferma o bocciatura da parte del popolo italiano tramite referendum. In altre prese di posizione pubblica Pombeni si è espresso a favore dei cambiamenti, sostanzialmente in nome del principio che la cosa più importante è che si formi un governo, poco importa se sostenuto dalla maggioranza dei cittadini.
Ciò che in particolare mi ha colpito dell’intervento di Pombeni su VT sono l’affermazione che i vescovi italiani abbiano raccomandato di votare a favore di tali cambiamenti e la scarsa considerazione delle obiezioni.
Non ho avuto notizia di pronunciamenti al riguardo dei vescovi italiani (rappresentati nella Conferenza Episcopale Italiana): forse Pombeni potrebbe citare il documento. Non mi pare che neppure nel più ampio magistero sociale della Chiesa vi sia una pronuncia secondo la quale la rappresentatività democratica delle istituzioni politiche deve cedere il passo alla facilità, alla rapidità, con la quale le autorità di governo possono assumere decisioni.
Sorprende anche il fatto che Pombeni riduca le obiezioni a “un mix di pregiudizi e di interessi al mantenimento dello status quo”, cui evidentemente è da lui ricondotto anche il pensiero di “stimati costituzionalisti”, che menziona in precedenza (salvo che non lo consideri irrilevante).
Pombeni dovrebbe sapere che sul fronte critico ci sono anche quelle parti di mondo politico che in modo esplicito e prevalente si ispirano al pensiero sociale cristiano, non certo riconducibili a “politici populisti, rancorosi”. Sono confluite nel “Comitato Popolare per il NO” presieduto da Giuseppe Gargani, parte della Federazione Popolare. Ma vi sono molti altri Comitati per il No, ai cui aderenti le qualificazioni di Pombeni sono del tutto inappropriate.
Forse sarebbe più produttivo per una scelta consapevole dei cittadini entrare non propagandisticamente nei contenuti dei tanti cambiamenti, ma offrire elementi di valutazione, da rapportare ai valori della democrazia rappresentativa e partecipativa. Gli slogan lanciati da Renzi sono per lo più semplificazioni propagandistiche. Non sono tanto alcuni degli obiettivi enunciati da Renzi a sollevare problema, ma la rispondenza delle modifiche a tali obiettivi senza compromettere valori fondamentali, quali la democraticità di un sistema politico e il principio di sussidiarietà, opposto al centralismo statalista che viene ripristinato da Renzi.
Penso che VT avrà occasione, nei mesi prossimi, di fornire tali elementi di valutazione ragionata, evitando di limitarsi a giudizi sommari, come purtroppo sulla questione Paolo Pombeni, ha fatto.

(scritto il 4/6/2016)

Terzo Statuto per il TNAA: alti rischi

Alcune dichiarazioni del Presidente della Repubblica Mattarella contenute nella sua “lectio” a Pieve Tesino tenuta il 18 di agosto a celebrazione del ruolo avuto da Alcide Degasperi nella nascita della Repubblica Italiana e nei suoi primi anni sono state da molti interpretate come garanzia circa il futuro dell’autonomia speciale del Trentino-Alto Adige/Suedtirol. Nell’editoriale di domenica scorsa Pierangelo Giovanetti le definisce “la base solida e condivisa su cui costruire il nuovo Statuto”. Vi aggiunge che il Trentino-Alto Adige, grazie a quanto previsto dalle modifiche della Costituzione che saranno sottoposti a referendum, godrebbe di una duplice garanzia circa il rispetto della propria autonomia, la “clausola di salvaguardia” che sarebbe “una blindatura dell’Autonomia” e il principio dell’”intesa” circa i contenuti della revisione statutaria.
Nello stesso numero de l’Adige è dato rilievo, già dalla prima pagina, al problema delle “competenze da mettere in salvo”. Prima il sen. Panizza e da poco lo stesso Presidente della Provincia Rossi, intendono chiarire con il Governo quale sarà il destino delle competenze attuali della Provincia, dato che per le regioni ad autonomia ordinaria è prevista una netta riduzione della loro autonomia legislativa, ristatalizzando competenze prima regionali, anche se per lo più concorrenti. Evidentemente anche chi ha sostenuto il Governo e i cambiamenti della Costituzione nutre dei dubbi sulla portata della “clausola di salvaguardia”, che nei fatti ha un valore solo procedurale, senza indirizzi di contenuto diversi da quelli validi per le altre regioni, così come nutre dei dubbi sul fatto che la clausola dell’”intesa” consenta di evitare esiti non voluti, come invece succedeva nelle norme costituzionali approvate in Parlamento nel 2001 dal centro-destra e poi non approvate nel successivo referendum per lo schieramento del centro-sinistra sul no. Non solo le bozze di normative destinate a regolare l’intesa, ma la stessa esperienza di che cosa significhi “intesa” ad es. per le decisioni inerenti all’autostrada della Valdastico, fanno supporre che una maggioranza qualificata in Parlamento possa prevalere in caso di mancata intesa tra Governo e le nostre istituzioni autonome.
Non si può tacere, poi, sul fatto che le nuove modifiche costituzionali reintroducono la possibilità per i poteri centrali di emettere, anche annullando leggi regionali, norme proprie anche in campi di competenza regionale (provinciale) primaria, qualora a loro giudizio lo richieda “l’interesse nazionale”. Giovanetti evoca i frequenti conflitti di competenza presso la Corte Costituzionale dovuti al concorso di competenze statali e regionali sulla medesima materia; potrebbe anche ricordare i frequenti conflitti presso la Corte Costituzionale tra Sato e regioni (anche autonome) proprio per il modo nel quale i poteri statali (Governo e sua maggioranza parlamentare) usavano del concetto di “interesse nazionale”. Una grande conquista delle autonomie, la sottrazione delle loro potestà normative da parte del Governo grazie a dichiarazioni arbitrarie di ciò che richiede l’interesse nazionale, viene perduta.
Vi sono altre ragioni di fondo attinenti alla democraticità delle nostre istituzioni (basti citare l’istituzionalizzazione del primato del Governo nel processo legislativo, che il principio della divisione del poteri assegna invece al Parlamento, legittimando gli abusi già attualmente praticati), ma credo per le popolazioni del Trentino-Alto Adige già sufficienti le ragioni attinenti all’autonomia per restare sorpresi dalla sicurezza con la quale esponenti delle associazioni imprenditoriali, sindacali, giornalisti, membri di partiti autonomisti spingono a un voto SI’ al prossimo referendum. Capisco come lo facciano i senatori e i deputati regionali del PD, che in nome del sostegno al loro leader Renzi, si privano della libertà di dire sinceramente come stanno le cose. Non lo capisco per altri, se non per una sorta di compiacenza ideologica o di schieramento. Spero che PATT e SVP siano sempre degni degli ideali autonomisti.
Nel suo editoriale il Direttore Giovanetti giudica da superare i riferimenti alle “tutele inteernazionali”, per guadagnare sul campo della migliore amministrazione la legittimazione dell’autonomia speciale. Giusta la petizione di principio per il migliore governo (che fu anche di Degasperi), ma giudicare superati i richiami alle tutele internazionali mi sembra togliersi i ramponi per camminare sul ghiaccio. Quando il Governo Berlusconi, nel 1994, progettava riduzioni della nostra autonomia, solo gli interventi, sollecitati dalla SVP, di Austria e Germania frenarono e fermarono tali progetti. Stesso rischio a mio avviso presenta l’avvio di un processo che porti il Parlamento a decidere su un terzo Statuto. Molto più saggio tenersi i ramponi ben allacciati. Meglio pensare ad aggiustamenti dello Statuto attuale, che potrebbero essere minimi e non necessari se il referendum d’autunno bocciasse le modifiche costituzionali volute dal Governo. Il clima generale nei confronti delle specialità autonomiste (e dell’autonomia più in generale) è sfavorevole anche in Parlamento e nessuna parola della “lectio” di Mattarella si tradurrebbe in suo rifiuto di firmare una legge sullo Statuto sgradita agli autonomisti trentini. Una conquista fondamentale per le popolazioni trentine, ottenuta soprattutto grazie ad Alcide Degasperi, non può essere giocata al tavolo da poker della politica trentina e sudtirolese. Non è un gioco e al tavolo vi possono essere dei bari.

(scritto il 22/8/16)

Top