Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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democrazia rappresentativa

Memoria corta dei sostenitori del sistema elettorale maggioritario

Caro Direttore,
l’Adige di lunedì 25 gennaio pubblica un articolo di Andrea Radice decisamente critico verso il ripristino del sistema elettorale proporzionale annunciato da Giuseppe Conte nel discorso alle Camere per la fiducia. Interessante la frase “Certo, il sistema maggioritario non risolve le cose, ma almeno dà inizio a un’inversione di tendenza, con la quale si può cominciare a ragionare per operare scelte sempre più programmatiche…”. Non mi pare tanto, ed è un rigurgito di realismo. L’avv. Radice non può far finta di non sapere che l’esperienza del maggioritario, appena attenuato da una modesta quota proporzionale, è già stata messa in atto nel 1994, senza che, dopo più prove, vi sia stata una stabilità dei governi per tutta la legislatura. Nel 1994 vinse il centro-destra, ma dopo pochi mesi uno dei partiti, la Lega Nord, mise in crisi il Governo Berlusconi. Al turno successivo vinse il centro-sinistra, ma anche in questo caso il Governo Prodi venne mandato a casa da Rifondazione Comunista e sostituito dal Governo D’Alema, grazie a CCD e CDU che si spostarono, costruendo l’UDR, dal centrodestra al centrosinistra. Nel 2006 vinse il centro-destra con Berlusconi, ma fu mandato in crisi dalle irrequietezze interne alla coalizione e da un Presidente della Repubblica sensibile a voleri non italiani. Se gli orientamenti politici sono numerosi e non liquidi, le alleanze, sia che si facciano prima del voto, come nel maggioritario, sia che si facciano dopo, come nel proporzionale, corrono sempre il grande rischio di spaccarsi. E’ impossibile eliminare la diversità con un sistema elettorale, salvo che non si adotti un sistema plebiscitario verticistico nel quale un voto ogni un certo numero di anni dia tutto il potere a un individuo (Presidente). E’ una democrazia ridotta a poco. La ricchezza plurale degli orientamenti politici impone di far la fatica di raggiungere e mantenere intese programmatiche per il governo. Non si può non ricordare, tra l’altro, che la durata limitata dei governi nati con leggi proporzionali si è di fatto accompagnata a una grande stabilità politica di alleanze fra Democrazia Cristiana e partiti dell’area liberale e socialista democratica. Elemento per giudicare della stabilità non è solo la durata di un governo, ma anche quella di sistema tra un governo, i governi precedenti e i governi successivi. Per queste considerazioni la Democrazia Cristiana è a favore di un sistema proporzionale, accompagnato dalla regola della “sfiducia costruttiva”, che in Germania hanno garantito stabilità ed efficacia decisionale.
Cordiali saluti,
Renzo Gubert
Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana

Inviato a L’Adige e finora non pubblicato

Che senso ha dare diritto di voto agli adolescenti?

Mi chiedo quali siano le ragioni per le quali i responsabili delle politiche nazionali, europee e globali hanno tributato enorme attenzione e testimoniato grande accondiscendenza alle manifestazioni che giovani teen-ager hanno tenuto in molti paesi, specie occidentali, per denunciare la necessità di cambiare modello di sviluppo, dando molta più importanza alle tematiche ambientali, con particolare attenzione ai cambiamenti climatici. In Italia è poi bastato che un ex-presidente del Consiglio del PD, ritiratosi dalla politica attiva, proponesse di dare il diritto di voto ai sedicenni per sentire un coro entusiasta di consensi, dalla sinistra alla destra, con rivendicazioni di primogeniture nella proposta.

Se in una famiglia i figli adolescenti fanno valutazioni critiche sulla conduzione familiare, di solito i genitori o i fratelli o sorelle maggiori cercano di esporre le ragioni per le quali si sono adottate certe condotte o fissato certe regole. Se gli adulti della famiglia seguissero entusiasti le critiche dei familiari adolescenti verrebbe da chiedersi se hanno quello che in trentino si direbbe un po’ di “scraiz”, ossia un po’ di intelligente buon senso nell’esercitare il loro ruolo educativo.

Sociologia, psicologia, antropologia culturale sono unanimi nel riconoscere che nella società moderna si diventa adulti molto più tardi di un tempo. I nostri genitori e molti di quelli di noi con i capelli grigi, a 14 anni (ma informalmente anche prima) andavano a lavorare, contribuendo alle spese della famiglia di origine e mettendo da parte risorse per la propria futura. Le ragazze preparavano la dote. Fatto il servizio militare si pensava a metter su famiglia, entrando nel mondo degli adulti. Ora l’istruzione obbligatoria, in varie forme, arriva ai 18 anni di età, percentuali alte proseguono gli studi e si arriva a superare i cinque lustri prima di affacciarsi al mondo del lavoro. Se ci sono difficoltà per il lavoro, si vive da disoccupati o precari per anni. Per farsi una famiglia c’è tempo, la sessualità è largamente gestita in forma ludica e provvisoria, senza assumersi la responsabilità verso il partner e verso figli. Troppo chiedere decisioni definitive e stabili. E’ di fatto un’adolescenza prolungata. Ebbene, non si capisce perché di fronte a un’età adulta che ritarda, anche psicologicamente, debba invece essere anticipata la responsabilità di determinare le scelte collettive, da sempre prerogativa dello status di adulto, che ha imparato ad assumersi almeno la responsabilità di un lavoro e di formarsi una famiglia. Dapprima la maggiore età era a 21 anni, poi si è portata a 18. Ed ora è difficile che si possa pensare che, dando il diritto di voto a 16 anni, non si debba riconoscere a 16 anni la maturità propria della maggiore età, con grandi conseguenze sociali.

Ritorna la domanda: per quali ragioni persone di ogni orientamento politico vogliono dare il diritto di decidere sul futuro della comunità locale, nazionale ed europea ad adolescenti che non hanno ancora dimostrato di sapersi assumere responsabilità di adulti?

La spinta è certamente venuta dalle manifestazioni ambientaliste guidate da una sedicenne del Nord Europa, molto partecipate. Si è scambiata la mobilitazione di teen-ager che ha le stesse caratteristiche di quella che avviene per una concerto all’aperto di un cantante alla moda per segnale di maturità politica. La comunicazione detta “social” (ma l’altra cos’è?) rende facile ritrovarsi per qualche happening. E’ bello fare qualcosa di inconsueto. Che molti autorevoli scienziati italiani (ma non solo) abbiano richiamato la prudenza nello spiegare le variazioni climatiche come effetto delle attività umane (senza considerare i cicli dell’attività solare) è per tali giovani irrilevante, eppure dicono che bisogna seguire gli scienziati!

Se non ricordo male, negli anni Sessanta i giovani pensavano ai 3M (mestiere, moglie, macchina) e ciò era giudicato un po’ troppo conformista e “materialista”. Oggi i seguaci della sedicenne nordica pensano a studiare senza sapere che mestiere faranno, rimandano a dopo i trent’anni il tentare di fare una famiglia, almeno provvisoria, ma non rinunciano alla macchina con i soldi di papà. E si adattano anche a una che usa petrolio, nonostante il denunciato “effetto serra”. Ma si credono non conformisti; a New York per l’ONU la loro portabandiera va in barca a vela (e il ritorno?). Possibile che tanti adulti non capiscano la portata di effimero che hanno le mode adolescenziali?

scritto 3 ottobre 2019

Se vince la Lega in Trentino l’autonomia è in pericolo? Il M5S rappresenta il popolo italiano? Alcune note

Ci sono due affermazioni che ricorrono in queste settimane, una nella campagna elettorale provinciale da parte degli avversari della coalizione guidata dall’on.Fugatti e una da parte dei massimi esponenti governativi del M5S, in particolare dell’on.Di Maio, vicepresidente del Consiglio dei Ministri. Entrambe mi paiono assai poco fondate.

La prima si riferisce alle conseguenze di un’eventuale vittoria della coalizione Popolare autonomista per il cambiamento guidata da Fugatti. Tali conseguenze sarebbero una stretta dipendenza del governo provinciale e della sua maggioranza dalle decisioni del Governo centrale, del quale componente fondamentale è la Lega, guidata dall’on. Salvini. Se il Presidente della Provincia sarà Fugatti, della Lega, egli non potrà, si dice, che obbedire alle direttive che gli vengono dal suo “capo politico” Salvini. Sarebbe perciò compromessa la stessa autonomia trentina. Che l’affermazione sia di formazioni politiche non nazionali, civiche o autonomiste, si potrebbe anche capire: è un modo per dire che esse sono necessarie. Che essa sia di esponenti di altri partiti nazionali, anch’essi magari aspiranti ad essere Presidenti della Provincia, appare del tutto incongruente. O il pericolo per l’autonomia viene dalla subordinazione dei leader trentini ai leader nazionali via struttura gerarchica di ogni partito, e allora ogni presenza politica provinciale di partiti nazionali sarebbe un pericolo. Oppure a contare è l’impostazione ideologica dell’intero partito, che può essere autonomista o centralista. La DC, partito nazionale, è stata un partito autonomista, che ha favorito l’istituzionalizzazione della nostra autonomia regionale e provinciale, sia con il primo Statuto nel dopoguerra, che con il secondo, nei primi anni Settanta. Degasperi l’attore principale del primo e Kessler a Trento con Piccoli (e Moro e Andreotti) a Roma gli attori del secondo. Possiamo ora sinceramente dire che la Lega non sia un partito autonomista? E’ stato il Ministro leghista Calderoli a concordare con la SVP, nel testo di una riforma costituzionale (poi bocciata in un referendum), l’inserimento di un potere di veto delle due Province Autonome a unilaterali modifiche parlamentari dello Statuto di autonomia. Cosa che non ha concesso il governo targato PD di Renzi nella sua riforma costituzionale (pur essa bocciata da un referendum). Sono state due regioni con governo a guida leghista, Veneto e Lombardia, che hanno proposto un referendum per allargare le autonomie regionali, referendum vinti entrambi con ampio consenso. Del resto non a caso l’on. Fugatti, nel presentare le liste della sua coalizione, ha dichiarato che prima di essere leghista è trentino e saprebbe tutelare l’autonomia trentina anche contro un governo nazionale a presenza leghista.

La seconda affermazione ricorrente si riferisce al dovere del M5S di attuare le promesse fatte in campagna elettorale, perché volute dalla maggioranza degli italiani. Primo dovere è obbedire alla volontà popolare e altri vincoli vengono dopo. Pure questa non è convincente. Il M5S è partito di maggioranza relativa di quella metà o poco più del popolo che è andato a votare. Raggiunge la maggioranza in Parlamento grazie a un “contratto” con la Lega, ma la sottoscrizione di una misura inserita nel contratto da parte della Lega non equivale al rispetto della volontà popolare, in particolare se quella misura (come per es. il reddito di cittadinanza) non era compreso nel programma della Lega (e del centro-destra). Non solo, ma anche chi ha votato M5S può averlo fatto come scelta del “male minore”, senza che abbia condiviso tutte le misure comprese nel programma M5S. Quindi è del tutto incongruente rivendicare da parte del M5S la capacità di onorare gli impegni che la maggioranza del popolo italiano gli avrebbe affidato. La maggioranza del popolo italiano non ha approvato nessuna misura proposta dal M5S. Sono semmai i dirigenti del M5S a voler rivestire di “volontà della maggioranza del popolo” delle misure che essi vogliono adottare. Altro che coerenza e democrazia diretta! Senza mettere nel conto le misure che nel programma non c’erano, e che la democrazia non è la dittatura della maggioranza.

Spero che la capacità critica degli italiani e dei trentini riesca a fare giustizia di affermazioni che, solo perché ripetute in mille occasioni, non diventano fondate e convincenti.

Democrazia in corruzione: autoritarismo partitico (l’esempio del M5S) e responsabilità dei giornalisti

Al Direttore de l’Adige Pierangelo Giovanetti,
il suo editoriale su l’Adige di domenica 31 dicembre coglie forse la principale delle questioni attinenti al sistema politico italiano e dei paesi europei: la vitalità delle convinzioni democratiche. Non che manchi il sostegno verbale alla democrazia, ma con il termine “democrazia” si mascherano atteggiamenti che la minano in profondità.- Lei porta alcuni risultati di ricerche demoscopiche fatte negli USA. Nell’ultima indagine dell’European Values Study (che si svolge con periodicità novennale e che ha visto l’Università di Trento come responsabile per l’Italia, da ultimo assieme alla Cattolica di Milano) la situazione risultava un po’ meno preoccupante per quanto concerne il sostegno a governi militari o esplicitamente autoritari, ma non altrettanto si può dire per governi di esperti che non debbano fare i conti con i parlamenti. E’ la corruzione tecnocratica del sistema democratico, a parole sempre sostenuto, ma svuotato.
Lei vede come cause rilevanti di tale fenomeno la fragilità del sistema elettorale, che “non è in grado di trasformare in linea di governo un consenso frammentato” e l’interesse di sistemi autoritari orientati aa accrescere la loro influenza internazionale (in primo luogo la Russia di Putin) a destabilizzare l’Unione Europea, i suoi paesi e più in generale l’Occidente. Dubito che un sistema elettorale sia in grado di trasformare un consenso frammentato in governabilità, se vuole rimanere democratico, vale a dire in grado di rappresentare le opinioni dei cittadini. Il sistema “italicum” voluto dal PD voleva fare quanto Lei auspica, ma la Corte Costituzionale lo ha giudicato non democratico.
Accanto a disegni di leader di sistemi autoritari , dei quali Lei riferisce (cause esterne), vi sono peraltro altre cause interne da porre all’attenzione di chi ama la democrazia, e di queste proprio il sistema dei mezzi di comunicazione, giornali compresi, portano responsabilità. L’inneggiare alla “morte delle ideologie”, divenuto di moda dopo la caduta dei regimi comunisti dell’Este Europa, altro non fa che privare il sistema democratico di un retroterra culturale stabile su cui basare le scelte elettorali e di partito. Il sistema politico, il voto, si è fatto “liquido” per dirla alla Bauman (e si rimedia con l’autoritarismo e il leaderismo) Il sottolineare da decenni la governabilità a scapito della rappresentatività ha svuotato le assemblee elettive (dal Comune all’Unione Europea) a favore del potere di “capi” (dal sindaco ai capi di governo) che condiziona pesantemente il loro ruolo.
Ultimo esempio, l’attacco alla libertà dei parlamentari previsto nelle ultime decisioni statutarie e regolamentari del Movimento 5 Stelle. Il nominato leader Di Maio promette che farà dimettere dal Parlamento gli eletti che “cambiano casacca” (e non solo per gli eletti del M5S, per tutti gli eletti), e che darà multe salate a chi vota in dissenso. Il massimo del partitismo autoritario, sintomo della mancanza di coesione di partito o di movimento su base di condivisione di valori e di loro declinazione politica (ideologia). Molti “comunicatori” dei mezzi di comunicazione non hanno fatto altro che gettare fango sui parlamentari che hanno “cambiato gruppo”. La colpa era sempre dei parlamentari, che avrebbero tradito gli elettori. Non si sono mai chiesti se il cambiare gruppo o il votare in dissenso non sia da imputare, invece, allo stesso partito o gruppo parlamentare, che ha cambiato posizione politica e che può, esso, aver tradito i suoi elettori. Chi esce dal gruppo o chi vota in dissenso può, egli, averlo fatto per rispetto degli elettori. Ricordo la mia esperienza nel gruppo CDU, poi confluito nell’UDR, che la sera si esprime per non sostenere il nascente Governo d’Alema e la mattina dopo si trova nella maggioranza di D’Alema con il proprio capogruppo al Senato ministro dello stesso Governo. Il mio dissenso e poi la mia uscita dal gruppo UDR (che mi aveva emarginato, privandomi dalla sera alla mattina di ogni ruolo nelle Commissioni) erano un tradire gli elettori o lo era la decisione di un capo, notturna e non assunta democraticamente di cambiare collocazione politica?
Quanti commentatori sui giornali o sul radio-TV hanno stigmatizzato l’autoritarismo fortemente antidemocratico delle nuove regole del M5S? E’ giusto che un parlamentare stia ai deliberati del partito e del gruppo cui appartiene e con il quale è stato eletto (salvo casi di obiezione di coscienza), ma ciò vale solo se le decisioni di partito e di gruppo sono state assunte con metodo democratico. Ma quanti partiti e gruppi sono veramente democratici? Ma per lo più si tace, nonostante la violazione di una norma della Costituzione.
La democrazia è indubbiamente in pericolo e l’allarme lanciato dal suo editoriale è prezioso avvertimento, ma per trovare le cause del pericolo e rimuoverle serve anche un esame di coscienza dei comunicatori sociali, per vedere se al pericolo non abbiano contribuito loro stessi.

patti con gli elettori e politica “liquida”

L’avvicinarsi di scadenze elettorali, specie di quella provinciale-regionale, fa ritornare le petizioni per “nuovi patti” con gli elettori, per rinnovamenti di patti ed alleanze tra formazioni politiche. Le stesse persone che avevano presentato come nuova un’alleanza o una formazione politica nella precedente elezione invocano di nuovo che di produca una novità all’elezione successiva. E i mezzi di comunicazione accreditano la necessità della novità, pena la perdita di consensi, il cadere dalla cresta dell’onda. E l’onda la creano proprio i mezzi di comunicazione, giornali e TV in particolare.

Mi sono più volte chiesto quali siano le ragioni di tale esigenza di novità e se sia costruttivo sostenerle. Se sono convinto dei principi cui ispiro la mia azione politica e gli obiettivi che intendo perseguire, il modo più razionale di agire è ispirato a continuità, non alla ricerca di novità. Se dei politici puntano sulla novità e se dei giornalisti spingono a ciò, e ciò è ricorrente ad ogni elezione, sorge il dubbio che principi e obiettivi di programma siano solo un mezzo per ottenere consensi per quel particolare momento, esempio di “liquidità della politica” come direbbe il collega Bauman. La stessa parola “patto con gli elettori” evoca una distanza tra politici e cittadini, voi date il voto a me e in cambio vi prometto certe azioni. Altra cosa un rapporto eletto-elettori nel quale il primo rappresenta i secondi, ne esprime ideali e orientamenti all’azione. Non c’è alcun patto tra diversi, ma solo condivisione e comune impegno in un rapporto di fiducia che va assai oltre la logica pattizia.

Da premiare in termini di riconoscimento pubblico dovrebbe essere la durata nel tempo di un impegno politico, che risulta facilitata da un patrimonio ideale di riferimento; un tale patrimonio non si cambia secondo le circostanze e le convenienze di un momento. Il movimento cattolico aveva espresso nel XX secolo una sua presenza politica stabile, apprezzata da molti cittadini. Lo stesso si può dire del movimento operaio socialista o delle correnti laico-liberali, pur nelle divisioni e articolazioni createsi lungo un secolo. Che cosa impedisce che tra i cittadini non possa rinascere la valorizzazione dell’impegno politico a lungo termine, fondato su ideali cui si crede profondamente e che ispirano programmi di lunga durata? Sarebbe un male? Meglio la “politica liquida” che caratterizza l’oggi? La domanda interpella almeno coloro che hanno un patrimonio ideale e di riflessioni culturali, come i cristiani che hanno il grande patrimonio della dottrina sociale della Chiesa, coloro che amano solidità e non liquidità, continuità e non novità. Ma interpella anche i giornalisti e gli editori, che creano opinione pubblica, l’agorà del mondo contemporaneo. E forse anche coloro che si sentono “costretti” a lanciare novità, ad auspicare nuovi “patti” per paura di non essere sulla cresta dell’onda e perdere consensi: potrebbero essere più liberi di essere loro stessi, non potendo credere che essi siano “liquefatti” nel profondo, travolti dal cinico uso strumentale delle parole e dei rapporti con gli elettori.

Proposta di alcuni sindaci per una formazione civica in Trentino: elementi da chiarire

LA PROPOSTA CIVICA DI ALCUNI SINDACI: VALUTAZIONI PROVVISORIE
Si parla spesso di una prospettiva “civica”, che dovrebbe sostituire gli approcci politici, specie a livello locale, basati su ideologie. Cosa si intenda per formazione civica, lista civica, riferimento ai valori del civismo è divenuto, tuttavia, sempre meno chiaro. Il documento presentato da alcuni sindaci trentini nei giorni scorsi chiarisce solo in parte. Cos’è l’ideologia, alla quale il civismo è alternativo? Se ideologia è il mascheramento “culturale” di interessi più o meno nascosti, il civismo vuole giustamente essere in modo opposto rapporto diretto con gli interessi popolari (ma solo questo il senso del popolarismo richiamato?).Se ideologia è l’elaborazione culturale di orientamenti di valore per una loro traducibilità in scelte politiche, il civismo non può evitare di adottare prospettive ideologiche. Quali sono? Delle tre parole d’ordine del documento dei sindaci passate sulla stampa, popolarismo, autonomismo e laicismo, le ultime due e forse anche la prima riguardano questioni di metodo; solo il popolarismo potrebbe esprimere contenuti, ma se non è inteso solo come “rapporto con il popolo”, ma come esperienza storica ispirata al pensiero sociale cristiano. Non è utile rimanere nell’ambiguità. L’autonomismo dice dei livelli territoriali di libertà di decidere (principio di sussidiarietà, di natura “regolativa”) e il “laicismo” (assai meglio parlare di “laicità”, cosa diversa dal laicismo) dice dell’autonomia da dare a Cesare, senza metter di mezzo Dio o le Chiese.
In Trentino vi è una lunga tradizione di liste civiche, espressione dello spirito comunitario locale, che rifiutava le divisioni connesse alla dialettica ideologica nazionale. Esso è stato espressione della cultura comunitaria, caratterizzata dall’importanza assegnata alla religione, alla solidarietà familiare e al legame con il territorio locale. E’ a questo civismo che si ispirano i sindaci?. Nella cultura della comunità trentina è però cresciuta la secolarizzazione, si è infragilita la famiglia, è diminuita la portata del sentimento di appartenenza al luogo e alla comunità locale. Se in precedenza il riferimento ai valori era implicito nel semplice riferimento al civismo locale, con la modernizzazione in atto non lo è più, essendo la cultura dei trentini divisa in ragione dell’accettazione o meno delle direzioni di cambiamento in atto come obiettivi da perseguire. Serve chiarezza al riguardo.
Diverso il civismo ridotto a metodo nella costruzione delle decisioni politico-amministrative dal civismo orientato a valori, che prende “parte” (diventa “partito”?), la parte che ritiene importante che le nuove generazioni non crescano solo nella ricerca del “benessere” materiale, che la famiglia non diventi sempre più fragile, che la vita umana sia tutelata e difesa sempre, che la solidarietà comunitaria cresca, che vi siano possibilità di studio e lavoro per tutti.
L’auspicio è che l’iniziativa civica di alcuni sindaci esca dalla genericità, che chiarisca come il popolarismo del loro civismo ha lo stesso sapore di quello che espresse Luigi Sturzo, che era anche autonomista e rispettoso della laicità della politica. Porre la questione al riguardo di “a chi servirà l’iniziativa civica”, se al centrodestra o al centrosinistra, è una trappola che immiserisce.

Legge elettorale per la rappresentatività del Parlamento, dialogo tra forze politiche per la governabilità

Sul Trentino del 31 gennaio l’editoriale di Francesco Jori denuncia acre l’incapacità dell’attuale classe politica di dare all’Italia una legge elettorale adeguata a garantire rappresentatività e governabilità. Il motivo sarebbe nel fatto che, secondo le previsioni, non vi sarebbe né singolo partito, né coalizione, in grado di ottenere la maggioranza in Parlamento e quindi sarebbe necessario ricorrere, per avere una maggioranza e un governo, ad accordi e mediazioni al ribasso, intessuti di ricatti e veti incrociati. Aggiunge una critica ai sostenitori del no al recente referendum costituzionale, perché incapaci di proporre una legge elettorale adeguata. A parte quest’ultima considerazione, non pertinente in quanto dire di no a un cambiamento della Costituzione non implica anche dover elaborare una comune proposta di legge elettorale, è l’insieme delle argomentazioni a non essere convincente.

Prima osservazione: se una legge elettorale garantisce rappresentatività, la governabilità non può derivare da essa, bensì dalla capacità di una forza politica o di una coalizione di ottenere la maggioranza dei voti. Se si vuole garantire che comunque anche una minoranza, la più grande, possa avere la maggioranza degli eletti, viene mortificata la rappresentatività delle altre forze politiche.

Seconda osservazione: l’aver ottenuto la maggioranza degli eletti non garantisce la governabilità, essendo sempre possibile che una parte degli eletti cambi opinione e schieramento nel corso della legislatura. E’ accaduto sovente in questi ultimi anni. E non sempre si è trattato di trasformismo di singoli parlamentari, ma di cambiamenti politici motivati che hanno riguardato componenti rilevanti di un partito o di una coalizione.

Terza osservazione: più i sistemi elettorali premiano in termini di rappresentanza il partito o la coalizione che raggiunga una determinata soglia di voti (oppure anche l’elezione di candidati in collegi uninominali) maggiore è l’incentivo a costruire liste di partito o coalizioni inclusive di identità politiche diverse, con la conseguente maggiore fragilità sia delle maggioranze, sia delle formazioni di minoranza. L’incoraggiamento all’inclusione si traduce in accordi, spartizioni, ecc. quale che sia il sistema elettorale.

Ciò premesso, non v’è sistema elettorale che risolva il problema di come si arrivi a comporre la varietà di opinioni politiche presenti in un quadro di stabilità. Serve sempre un dialogo tra gruppi di opinione politica diversa, sia prima delle elezioni, sia dopo, sia durante la legislatura. Che il risultato sia una mediazione “alta” o meramente spartitoria di posti di governo, sottogoverno, in Parlamento, dipende dalla qualità delle formazioni politiche. Questa a sua volta dipende dal fondamento sul quale si basa la forza politica (motivazioni più o meno altruistiche dei politici, loro competenza tecnica e loro capacità di rapportarsi con le forze sociali, economiche e culturali, elaborazione ideologica riferita a valori, che dà stabilità di orientamento nelle scelte).

Per tutte queste ragioni, si può dire che un sistema elettorale proporzionale (magari con soglia minima per scoraggiare frammentazioni artificiose), con libertà totale di scelta tra i candidati serve a garantire meglio di altri la rappresentatività, mentre la governabilità si può raggiungere solo con accordi, prima o dopo le elezioni, tra forze politiche sulla base di programmi condivisi. E’ quanto accade in Germania, in Austria, in molti altri paesi ed è quanto è accaduto in Italia fino al 1994, dapprima con governi di derivazione CLN, poi centristi, poi di centro-sinistra, poi di “compromesso storico” e infine ancora di “pentapartito”. Cambiavano spesso i governi, ma non le maggioranze che davano stabilità al quadro politico, divenuto progressivamente più inclusivo, secondo un modello politico “comunitario” che valorizza l’apporto di tutti o quasi (come accade tuttora per es. regolarmente in Svizzera). Perché non mettere nel conto il fatto che compito della politica è anche quello di costruire convergenze su una comune piattaforma? Se il bipolarismo è finito in Italia, è inutile ricostruirlo artificialmente con meccanismi elettorali che mortificano la rappresentanza; meglio pensare a dialogo per costruire accordi, tenendo conto della rappresentatività di ciascuna forza politica.

Avvenire e Vita Trentina su referendum costituzionale: mancano riferimenti a dottrina sociale cristiana

Lettera al Direttore di Vita Trentina Diego Andreatta.
Quando uscirà il prossimo numero di Vita Trentina l’esito del referendum costituzionale sarà già stato acquisito e commentato. Il suo editoriale sul numero del 4 dicembre, così come la linea in merito seguita da Avvenire, mi ha sollecitato una riflessione. Nonostante che l’Adige del 2 dicembre legga nel suo editoriale un implicito invito a votare SI’ (sinceramente non l’ho colto, neppure nei riferimenti agli effetti del voto sul contesto europeo), l’atteggiamento suo e di Avvenire, come il richiamo del Segretario della Conferenza Episcopale Italiana a badare con razionalità ai contenuti, mi sono apparsi “neutrali”, al di là delle convinzioni personali. Ciò che mi ha sorpreso è, però, che nella valutazione dei contenuti della legge costituzionale non si sia fatto riferimento ai principi, ai valori, proclamati dalla dottrina sociale della Chiesa, anche quella degli anni dopo il Concilio Vaticano II. A mio avviso due principi guida del pensiero sociale cristiano erano chiaramente rilevanti nelle valutazioni da dare, quello di una democrazia partecipativa e quello della sussidiarietà verticale. Non che manchino, nel suo riferire delle diverse posizioni, a favore o contro, citazioni della democrazia partecipativa e (indirettamente, parlando di centralismo e regioni) del principio di sussidiarietà, ma è mancato l’esplicito invito ai cristiani di valutare i contenuti della legge costituzionale a partire dalla coerenza con la dottrina sociale cristiana. Il togliere competenze alle regioni per concentrarle nello Stato, il potere dello Stato di intervenire sulle residue competenze regionali, semplicemente “dichiarando” l’interesse nazionale, sono misure coerenti con il principio di sussidiarietà? A me non pare, ma doveva essere questo il punto di partenza per una valutazione da parte dei cristiani. E’ sufficiente aver creato un Senato con rappresentanze di Consigli regionali e Comuni per far dire che nel complesso il bilancio in termini di rispetto della sussidiarietà è positivo, se si tiene conto delle competenze assai ridotte affidate al Senato e poco connesse con i problemi da affrontare in sede regionale?

Simile il problema per quanto concerne il principio di democrazia partecipativa. Di fronte alla crisi della funzione della rappresentanza parlamentare, sempre più soggiogata alle decisioni dell’Esecutivo, va in direzione del valorizzare la democrazia partecipativa l’aumentare il potere del Governo di dettare l’ordine del giorno del Parlamento, non più solo con decreti legge per i quali non esistono i presupposti, non più solo con l’uso di leggi delegate estremamente generiche, non più solo con l’uso di maxi-emendamenti sui quali porre la fiducia per stroncare ogni possibilità dei parlamentari di vedere discussi degli emendamenti, ma anche con il potere di dettare l’agenda parlamentare semplicemente dichiarando “importante” una legge? A me non pare. E’ sufficiente a compensare ciò la possibilità di indire forme consultive di referendum e garantire ai disegni di legge di iniziativa popolare di essere discusse (pur rendendo più difficile presentarli, essendo necessario il triplo di firme? A me pare di no. Anche ora le opposizioni hanno il diritto (per Regolamento parlamentare) di veder discussi propri disegni di legge, ma il tutto si traduce nel metterli all’ordine del giorno per poi rapidamente bocciarli. Sono parziale nel mio giudizio? Se ne discuta, ma a partire dal valore della democrazia partecipativa enunciato e fatto proprio dalla dottrina sociale cristiana. Poi in quanto laici cristiani ciascuno agirà come richiede giusto in coscienza, ma questa va “illuminata”, quanto meno richiamando i principi di etica sociale cristiana.

E’ bene che le diocesi si impegnino in corsi di dottrina sociale, è bene che tra i compiti della Consulta dei laici vi sia anche quello di valutare situazioni e iniziative politiche alla luce della dottrina sociale cristiana, ma se, di fronte a una sfida che divide, anche i cristiani, non si lavora per cercare valutazioni coerenti con il pensiero sociale cristiano, preferendo soluzioni che richiamano il comportamento di Ponzio Pilato, per evitare di scontentare una parte o l’altra, la portata dei corsi e delle poche riunioni della Consulta rimane sterile.

Democrazia e vincoli sul sesso nelle preferenze

Su l’Adige del 15 settembre scorso Giorgia De Paoli, già attiva in un istituto delle Nazioni Unite per il progresso delle donne, cerca di addurre ragioni per l’introduzione anche nel Trentino-Alto Adige di vincoli nella libertà di esprimere le preferenze nelle votazioni comunali e provinciali-regionali. Il vincolo che ritiene giusto, e che il Consiglio Provinciale di Trento sta discutendo, consiste nel concedere la possibilità di esprimere due preferenze solo se una è a un uomo e l’altra a una donna, ritenendo che tale vincolo favorisca l’elezione di donne, dato che “spontaneamente” gli elettori e le elettrici tendono a preferire uomini, anche se nelle liste vi sono molte candidate.
Già in altre occasioni avevo espresso la mia contrarietà a introdurre vincoli nella libertà di voto che tendano a favorire l’elezione di appartenenti a qualche categoria. Se si percorre tale strada, si apre la porta a vincoli che favoriscano la rappresentanza di giovani, dato che tra gli eletti sono sottorappresentati, la rappresentanza di coloro che hanno un’istruzione non superiore a quella dell’obbligo, dato che sono sottorappresentati, la rappresentanza di operai, di contadini, di discendenti di immigrati, e così via per altre categorie, dato che sono sottorappresentati. La non giustificazione di tali vincoli appare più chiaramente per le donne, dato che tra gli elettori, sono la maggioranza, non certo impedite, quindi, di votare una buona rappresentanza di donne.
Nella società tradizionale gli affari pubblici sono generalmente gestiti dagli uomini e quelli domestici più spesso dalle donne. Tant’è vero che perfino nell’Italia liberale, fino a settant’anni fa, le donne non potevano neppure votare. La società moderna reclama la parità di diritti tra uomo e donna e l’ha pienamente realizzata: perché “forzare” con vincoli l’esito delle libere scelte di uomini e donne?
Chi sostiene tali “forzature” afferma che servono “misure di discriminazione positiva” per accelerare mutamenti nella direzione che si ritiene più opportuna. Ma il giudizio di opportunità non appare scontato e univoco. L’articolo di Giorgia De Paoli cerca di dare fondamenti obiettivi all’opportunità che in politica ci siano molte donne, ma sono proprio tali fondamenti a mostrare estrema debolezza. E la debolezza consiste in un’ingenuità imperdonabile per un ricercatore: l’attribuzione di valenza causale a semplici concomitanze. Il constatare che in comuni, regioni, stati dove ci sono più donne in politica si registrano anche fatti positivi (più acqua potabile, più assistenza all’infanzia, più congedi parentali, ecc.) non prova che essi siano dovuti proprio alla maggior presenza di elette donne. Si potrebbero trovare altre concomitanze con fatti negativi. Se fosse così chiaro che è vantaggioso avere molte donne elette, non si capisce perché uomini e donne non preferiscano eleggere donne anziché uomini. E Giorgia De Paoli non tiri in campo le discriminazioni contro le donne presenti in alcuni paesi! In Italia queste non hanno influenza alcuna, come non l’ha la regolazione del diritto di voto in Vaticano.
Bisognerebbe invece chiedersi per quale ragione la maggiore propensione degli uomini ad occuparsi dicerti ambiti della vita e la maggiore propensione delle donne ad occuparsi di altri ambiti non possano essere semplicemente espressione della diversità di uomini e donne, non solo fisica, ma anche psicologica e sociale. E bisognerebbe chiedersi perché tale diversità non possa variare da paese a paese, da regione a regione, da città e villaggi, senza dover giudicare negativamente quanto si discosta da un proprio modello, pur se fatto proprio da istituzioni internazionale sulle cui posizioni intervengono lobbies che tale diversità avversano.
Se il Trentino-Alto Adige seguisse un modello diverso da quello seguito da altri, potrebbe semplicemente dare un segnale di “autonomia culturale” nei confronti di spinte conformistiche verso un modello che nega la libertà di articolare una composizione dei ruoli di uomini e donne secondo le preferenze spontanee delle popolazioni.

Referendum costituzionale e gli interessi schierati per il sì

Si moltiplicano in crescendo le prese di posizione a sostegno dell’approvazione dei cambiamenti della Costituzione che gli italiani saranno chiamati ad ottobre a valutare e l’Adige le riporta dedicando ampio spazio. Nel solo numero di martedì scorso due lunghi interventi di Ugo Rossi e di Carlo Ancona, il primo che illustra i grandi vantaggi delle nuove norme per il Trentino e il secondo di critica ai magistrati e ai giuristi che si sono pronunciati motivatamente per il no al referendum.

Resto confuso di fronte alle argomentazioni del Presidente della Giunta Provinciale, che ripete quello che ha già detto la ministra Boschi. Capisco, però, che un Presidente la cui permanenza in ruolo dipende dal partito che comanda a Roma e che, via Governo, ha imposto i cambiamenti, si sia acconciato a lodare, tacendo, invece, sulle gravi lesioni che le modificazioni costituzionali prevedono per la nostra autonomia. Rossi tace sul fatto che la subordinazione dell’entrata in vigore delle nuove norme, se approvate dal referendum, alla revisione degli Statuti delle regioni ad autonomia speciale, non toglie il dovere di adeguare tali Statuti alle nuove norme costituzionali, che sottraggono competenze cruciali (si pensi ad ambiente e a energia) a tutte le regioni, comprese quelle ad autonomia speciale. Rossi ancora tace sul fatto che le nuove norme prevedono la possibilità che il Governo invochi “l’interesse nazionale” per intervenire sulla legislazione di tutte le regioni (comprese quelle ad autonomia speciale), un arretramento che riporta al centralismo di un tempo, il cui superamento era stato giustamente presentato come un grosso passo avanti dell’autonomia. Rossi vanta il permanere del principio dell’ ”intesa” per le modifiche statutarie, ma come ben sa, il principio dell’intesa non dà potere di veto; le autonomie speciali dovranno cedere qualcosa nel campo delle loro competenze attuali, anche se c’è il principio dell’intesa, come anche il caso della Valdastico ha dimostrato. Resto confuso perché non riconosco nelle considerazioni di Rossi, del PATT, uno spirito autonomista chiaro e verace.

Ciò che in un primo momento mi ha sorpreso, ma poi, invece, ho capito che rientra nella piena normalità, è l’appoggio dichiarato alle nuove norme costituzionali da parte di Confindustria e di Coldiretti. Mi è bastato ricordare episodi di storia contemporanea bene analizzati, quando ero studente, dal prof. Giorgio Galli, docente a Trento. Di fronte alle agitazioni sociali del primo dopoguerra (a partire dal 1919), provocati anche dalla crisi economica conseguente alle devastazioni belliche, Mussolini e più in generale i leader fascisti trovarono il sostegno degli industriali e degli agrari. Le organizzazioni di imprenditori si curano più dei propri interessi che dello stato della democrazia. Non a caso la ministra Boschi, a Bolzano, di fronte all’Assemblea degli industriali con il suo presidente nazionale Boccia, ha vantato la rapidità decisionale e la stabilità di governo che le nuove norme garantirebbero. Conta l’efficienza, poco importa se per ottenerla si deve abbassare il livello di democraticità del sistema politico. Agli agrari dei primi anni ’20 si aggiungono ora i Coldiretti, che non sono più solo i “coltivatori diretti”, ma nella classe dirigente, sono titolari di imprese assai simili a quelle degli “agrari” e perciò con i medesimi interessi, cui si aggiungono promesse governative di tutela delle loro produzioni. Spero solo che la medesima posizione non assumano le organizzazioni degli artigiani e dei commercianti, forse meno condizionabili. Capacità di decisione rapida, mettendo in secondo piano il tasso di democraticità, è anche quello che invoca il giudice Carlo Ancona. Vorrei timidamente osservare come le nuove norme non impediscono agli eletti, anche se nominati, di cambiare opinione nel corso dei cinque anni di legislatura: possono costituire gruppi autonomi che non obbediscono più a chi li ha nominati. Il principio maggioritario nelle leggi elettorali vige dal 1994 e non è valso a scongiurare crisi di governo e interruzioni di legislatura. Non lo è valso neppure il potere di nomina dei parlamentari da parte dei vertici di partito; si pensi all’attuale legislatura: eletti preordinati nelle liste del medesimo partito che hanno poi costituito partiti e gruppi parlamentari autonomi. All’aver fatto diminuire il livello di democraticità nella scelta dei parlamentari (fino a infrangere la Costituzione) non ha corrisposto un maggior controllo di parlamentari da parte dei leader, alimentando trasformismi indegni. Come si fa a dire che con le nuove norme costituzionali certamente si avrà maggiore stabilità dei Governi?. Certo si saprà chi ha vinto la sera dello spoglio delle schede, ma non si saprà quanto a lungo il Governo durerà.
La macchina della propaganda per il sì è stata avviata con forze soverchianti governative ed economiche. Spero che i giornali e in generale i mass-media diano spazio anche a chi obietta!

(scritto il 7/6/2016)

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