Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Aprile, 2016

L’inferma politica trentina: mancano i leoni e le volpi non sono scaltre

Non è una bella stagione per la qualità della politica trentina, stando alle valutazioni che si rincorrono sui giornali locali. Non si sa disegnare il futuro sia dell’economia che dell’assetto istituzionale ed emergono le “magagne” dell’amministrazione “ordinaria”, stretta dalla contraddizione tra gli ideali di buona amministrazione orientata in termini universalistici al bene comune e le pratiche di appropriazione della “rendita politica” offerta dal ricoprire posizioni di potere.

Non sono problemi di oggi. Da quando per vantaggi di potere (accordo elettorale-politico con la SVP) chi governava il Trentino ha posto le basi per rendere il Trentino più solo, distruggendo la dimensione regionale, non è più chiaro come conciliare la persistenza della Regione, necessaria per la legittimazione della speciale autonomia trentina, con la razionalità dell’assetto istituzionale, che poco giustifica enti senza competenze di qualche rilievo. E così oggi si annaspa, mettendo in campo procedure per il “Terzo Statuto” senza prospettive chiare.

Anche per il futuro economico mancano prospettive di medio-lungo periodo: la locomotiva industriale su cui si basava il primo piano urbanistico di Kessler è da tempo ferma e se ne smontano i pezzi; altre attività come quella turistica segnano il passo e con esso l’artigianato e l’edilizia che vi sono connessi; il terziario pubblico deve fare i conti con risorse calanti; gli sforzi di creare imprenditorialità in settori del “terziario avanzato” interessano pochi. L’agricoltura vive la crisi del latte. Valorizzazione di produzioni locali hanno successo, ma restano pur sempre insufficienti a creare una base economica adeguata. Molta cooperazione, specie nel settore del consumo e del credito, soffre crisi economica e di ideali.

E’ sentimento diffuso che questo stato di cose sia il riflesso locale di una crisi generale, che attraversa molta parte della società occidentale, quella che non è all’avanguardia nei processi di innovazione: la fabbrica del mondo è in Cina e in altri paesi asiatici, mentre la capacità di innovare, creando vantaggi competitivi basati sul miglioramento delle conoscenze scientifiche e tecniche, è in ristrette aree dell’Occidente.

Ci si dovrebbe, allora, consolare, vantando la buona amministrazione: onestà, competenza, orientamento al bene comune. E invece anche in Trentino emergono usi del potere politico-amministrativo che testimoniano la permeabilità dell’agire amministrativo agli interessi privati, particolaristici, connessi a amicizie, parentele, clientele. Forse il grado di permeabilità è minore che ad altre latitudini o forse le tecniche di mascheramento di tali interferenze sono più efficaci, come ci insegnano i paesi ritenuti più “corretti”. Basta aver vissuto un po’ di esperienza politica per accorgersi, però, che ovunque la competizione politica porta con sé lotta per appropriarsi della “rendita politica” (contratti, incarichi, cariche in enti e società para-pubbliche, cariche di mero prestigio), la quale viene distribuita in cambio di consenso politico, già avuto (ricompensa) o sperato (caparra). Sociologia e scienza politica lo attestano. E ciò vale anche in qualche misura nei momenti rivoluzionari dei “leoni”, oltre che, con maggior forza, in quelli delle “volpi” come chiamava Pareto i due diversi tipi di leader.

Il Trentino non ha più leoni, ma anche le volpi sono insufficientemente scaltre nel mascherare le loro trame, facendole apparire “buona amministrazione”, onesta, competente, solo orientata al bene comune. Viene il dubbio che di leoni non ne nascano perché la secolarizzazione e il relativismo etico hanno sterilizzato ideali forti e che manchi anche la capacità di avere chiaro cosa sia onesto o disonesto, ciò che sia utile alla comunità tutta, e quale sia la modalità più efficace di realizzarlo.
La sfida da affrontare è quindi prima di tutto culturale, etica e scientifica.

Struttura culturale diocesana a Trento e scelta di una coordinatrice di un dibattito sull’utero in affitto assai “comprensiva”

i giornali locali del 9 marzo scorso hanno dato ampio spazio a un’iniziativa di Religion today, la programmazione del film-documentario “Mother India” presso il Polo Culturale Diocesano di via Endrici, con successivo dibattito. Non sono andato a vedere il film dopo che ho letto che la conduttrice del dibattito, la ricercatrice Lucia Galvagni, nell’intervista che ha dato ai giornali, ha rilasciato dichiarazioni vicine alle tesi dei sostenitori dell’”utero in affitto”. Laureata alla Cattolica di Milano, è ricercatrice alla Fondazione Kessler.

Mi chiedo se tra le finalità del nuovo Polo Culturale Diocesano vi sia quella di farsi megafono di tesi etiche che contrastano in modo netto con il pieno rispetto della vita umana, dei figli e delle donne. La ricercatrice afferma che, dopotutto, in India “la maternità surrogata è diffusa da sempre, ed è largamente accettata” e questo non può che farci constatare come su questo punto “le culture hanno punti di vista molto diversi”. Non ammesso e non concesso che la capacità indiana “da sempre” abbia saputo compiere pratiche di fecondazione artificiale necessarie alla pratica della maternità surrogata (altra cosa cedere un proprio figlio- magari adulterino- al padre o ad altra famiglia, come in passato poteva essere accaduto, peraltro in gran segreto e di nascosto, per lo più da parte di madri povere), sorprende che si adotti un criterio etico totalmente relativista; ho conosciuto in Africa culture che avevano praticato e praticavano sacrifici umani e in Asia sud-orientale che avevano praticato il cannibalismo (con capanne che avevano all’esterno la gabbia per il nemico da mangiare). Credo che, almeno in ambito diocesano, chi guida i dibattiti debba saper giudicare eticamente anche le culture.

Ancora, la ricercatrice afferma che, sebbene ci siano posizioni diverse in materia, “non sembrino emergere reali problemi” dal fatto che i bambini, con la pratica dell’utero in affitto, siano cresciuti in unioni di persone o famiglie diverse da quelle del padre e della madre: quello che conta sarebbero “le interazioni interpersonali”. E’ esattamente la posizione dei sostenitori dell’adozione di figli da parte di coppie o singoli che ricorrono all’utero in affitto. La ricercatrice non spende una parola per giustificare tale affermazione conclusiva e tace sulle molte risultanze di indagini scientifiche che provano il contrario. Per la ricercatrice invitata a guidare il dibattito al Polo Culturale Diocesano non risulta neppure chiaro, secondo la bioetica, che un bambino abbia diritto a conoscere chi sono i suoi genitori biologici. La fecondazione assistita, afferma, “e’ un modo per aiutare le famiglie, come i “modi alternativi per procreare dei figli e trasmettere la vita”.

Non mi meraviglia che una ricercatrice, anche se laureata alla Cattolica e iscritta a un centro costituito in un’università cattolica gesuita di Washington, sostenga posizioni come quelle enunciate: rientra nella sua libertà. Mi meraviglia che una persona con tali posizioni etiche e culturali sia incaricata di guidare un dibattito in un ambiente diocesano e nell’ambito di un’iniziativa culturale che dalla diocesi ha sempre avuto sostegno. E’ stato voluto o è stato un infortunio? In entrambi i casi ai comuni membri della comunità cristiana non resta che tristezza.

PS Il responsabile del Polo culturale diocesano su Vita Trentina rifiuta critiche

utero in affitto e solidarietà: ma per chi?

Sul penultimo numero di Vita Trentina padre Livio Passalacqua, nella sua rubrica, affronta il tema dell’”utero in affitto”. Chiara la sua valutazione negativa della mercificazione della donna connessa alla pratica dell’affitto dell’utero per avere un figlio. La sua lucidità mi pare persa, però, se alla base della “gestazione per altri” vi sono motivazioni non venali. Vi sono casi che, per padre Passalacqua, inducono sentimenti di umana comprensione, che lo portano a riprendere quella frase del Papa in un’intervista, per la verità manipolata, sugli omosessuali: “chi sono io per giudicare?”, aggiungendo che al riguardo “individuare il confine tra il bene e il male oggettivamente è arduo”.

Ricordo come, quando in Parlamento venne discussa la legge sulla fecondazione artificiale, era chiaro che la fecondazione artificiale, secondo l’insegnamento della Chiesa, era moralmente un male, anche se omologa; che ora per padre Passalacqua non si possa dire “oggettivamente” un male la fecondazione artificiale eterologa accompagnata da uso di una donna come incubatrice suona quanto meno strano. Il “chi sono io per giudicare” può valere per la dimensione “soggettiva”; se viene usato anche, come egli scrive, per quella morale “oggettiva”, della “materia”, come si sarebbe detto una volta, contravveniamo all’insegnamento della Chiesa, che al riguardo si è chiaramente pronunciata.

Padre Passalacqua elenca casi nei quali la “comprensione”, l’astensione dal giudizio morale sulla “materia”, sono più appropriati della condanna anche solo sul piano “oggettivo”. Sorprende che nel descrivere questi casi, che per la verità mi appaiono tutt’altro che atti a giustificare la “pratica” (la gestazione surrogata per una sorella o una figlia, per pietà di una donna senza ovaie, per superare una urgenza economica drammatica, per superare la solitudine, per rendersi utile, per solidarietà con gli omosessuali, per generare senza dover poi tenersi il figlio con l’ansietà di doverlo crescere), mai padre Passalacqua metta nel conto il figlio, che viene generato violando i suoi diritti ad avere un padre e una madre veri, ad avere una sua identità non scissa e conoscibile. Tali diritti sono violati indipendentemente dalle motivazioni della maternità surrogata, siano esse accompagnate da pagamenti o da sentimenti. E ciò non mi pare fatto di poco conto per un giudizio. L’empatia che invoca padre Passalacqua non vale per il figlio?

PS Sull’ultimo numero di Vita Trentina padre Passalacqua ha risposto, preannunciando un chiarimento sulla sua posizione.

L’abito della festa

di il 8 Aprile 2016 in religione con Nessun commento

Lo osservavo le domeniche, ma la conferma avuta a Pasqua – distrazioni da sociologo nell’osservare l’abbigliamento delle persone che si recano a ricevere la comunione – suona a conferma forte: la festa religiosa non si distingue dalla ferialità. Quando ero ragazzo c’erano tre tipi di abbigliamento per le persone normali, lavoratori della terra o dell’industria: quello da lavoro, quello che a Primiero si chiamava “di plao” (non so come venga denominato in altri idiomi), ossia feriale non di lavoro, e quello della festa. Per i pochi del ceto impiegatizio l’abbigliamento di lavoro e quello di plao coincidevano. Ma il vestito della festa era qualcosa di diverso, di migliore.
Mio padre, per quello della festa, andava alla Dalsasso di Scurelle, in corriera, a comperare la stoffa e poi se lo faceva confezionare da un bravo sarto di Fiera di Primiero. Per gli altri abbigliamenti si affidava a vestiti già confezionati e di qualità minore.

Non si poteva andare in chiesa di domenica se non con il vestito migliore che si aveva. Se si fosse stati invitati dal Presidente della Repubblica, diceva mio padre, si sarebbe andati a visitarlo con il migliore degli abiti; ma il Dio che si andava a trovare in chiesa valeva ben di più del Presidente della Repubblica.

Oggi la maggior parte della gente, non solo i giovani, ma anche gli anziani, vanno in chiesa la domenica con i vestiti di tutti i giorni, con i vestiti feriali. Anzi, spesso peggio. In ufficio di giorno di lavoro si va vestiti meglio; la domenica ci si mette in libertà, si veste in modo informale: blue jeans, maglietta o camicia non eleganti, una giaccone da ginnastica, (quando non una tuta), scarpe da ginnastica.

Un tempo osservavo come si potesse notare il diverso livello di benessere di un paese dalla qualità media dell’abbigliamento usato la festa; ora non più. Rimangono isole dove l’abbigliamento della festa è ancora usato, anche in chiesa. L’ho visto in Austria e in Baviera, dove si usano ancora i costumi tradizionali. Da noi non più, neppure nella festa del patrono o nelle grandi feste, come la Pasqua. Solo i “sizzeri” o i gruppi folcloristici o le bande ricordano, dove e quando ci sono, la specialità della festa.

Eppure ci sono occasioni nelle quali ci si veste eleganti: se si va a teatro, a un ricevimento, a visitare un’istituzione che richiede l’abito formale ( es. Parlamento, Quirinale). Non è quindi una questione di gusto o di una questione economica, ma della testimonianza della secolarizzazione della domenica: non c’è nessuno di importante da incontrare. E se si crede di incontrare Dio in chiesa, ciò che conta è la sostanza, non la forma. E così si va vestiti alla buona, riservando il massimo di rispetto nel vestire ad altre occasioni sociali.

Sinceramente non mi pare un passo avanti; forse un’educazione religiosa anche in merito all’abbigliamento dei laici la domenica alla messa farebbe bene. In fondo i preti continuano a usare abiti (paramenti) da cerimonia: ci sarà pure un motivo, no? Che dietro alla forma ci sia anche sostanza?

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