Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Marzo, 2017

Inumano il medico obiettore che, richiesto, non uccide un essere umano nel grembo materno? Interrogativi a Andrea Makner

Sul Trentino del 6 marzo u.s. Andrea Makner nella consueta rubrica Ragione & Sentimento, che seguo con interesse dato che quanto vi è scritto non è scontato, ancora nella ripresa di prima pagina, scrive “Personalmente trovo profondamente disumano che un medico davanti a una donna che intende abortire possa dire no”. Nel testo completo della sua risposta a una lettera, Andrea Makner, dalla foto una donna, nonostante che il nome induca in Italia a pensare a un uomo (in italiano per una donna si userebbe Andreina) l’inizio è una chiara affermazione che la vita umana comincia dal concepimento, evitando così di negare la realtà, come fanno molti favorevoli all’aborto. Ma la capriola concettuale è fatta dopo: i “concetti sostanziali” di libertà e di dignità imporrebbero di non trarre da questa constatazione una regola valida per tutti: c’è una inevitabile “tara individuale”, che dovrebbe derivare non da principi (spersonalizzanti), ma da “elaborazioni intime e profonde”, il cui precipitato collettivo è stata la legge con il referendum che ha legalizzato l’aborto, rendendolo così sicuro. Andrea Makner si fa poi anche maestra di religione: una religione che abbia come fine il bene della sua gente dovrebbe apprezzare la legge dell’aborto e i suoi risultati, tra i quali una diminuzione degli aborti stessi (peccato che non metta nel conto, come anche il Ministero della Salute, quelli clandestini, resi facili da pillole abortive). Da tale ragionamento il giudizio netto sopra riportato, che giudica inumano il medico obiettore.

Mi piacerebbe capire come sia possibile riconoscere che l’aborto uccide una vita umana e nello stesso tempo giudicare inumano il medico che ritiene una violazione della sua deontologia l’uccidere nel ventre materno (giuramento di Ippocrate, non di un populista o un dogmatico come definisce la Makner chi è contrario all’aborto). E’ vero che lo stato italiano rende possibile l’aborto volontario (peraltro a certe condizioni e previe azioni di rimozione delle cause, per le quali lo stato è del tutto inadempiente), ma sempre lo stato italiano, nella legge che piace molto alla Makner, prevede che il personale medico e infermieristico possa esimersi dalla soppressione di un essere umano (obiezione di coscienza, tutelata anche dalla Costituzione). La Makner vorrebbe abolire tale possibilità? Possibile che non abbia un po’ di pietà anche per quell’essere umano in formazione che viene privato della vita, talora anche con sistemi crudeli? Non ha mai letto la Makner delle sindromi terribili che le donne soffrono dopo aver voluto un aborto? Nessuna pietà neppure per loro, in nome della “tara individuale” che può rendere padroni della vita o della morte di un figlio ancora nel grembo di sua madre?

Spero in una risposta! E spero non dica che da maschio, non avendo partorito, non ho diritto di pensarla diversamente senza essere giudicato maschilista, populista, dogmatico, seguace di una falsa religione, che faccio dire a Dio ciò che mi aggrada!

La burocrazia uccide l’agricoltura per autoconsumo, definita hobbista, e le microimprese agricole

Sono reduce da un corso organizzato dalla Fondazione Mach per il rilascio del cosiddetto “patentino” per l’uso di fitofarmaci. Il corso è stato ottimamente tenuto, ma il quadro emerso circa le normative in atto in materia mi ha rivelato un fenomeno che non supponevo così esteso, e che ben si accorda con quello, segnalato qualche tempo fa, dell’anagrafe, con prove varie, delle stufe a legna.
Prima questione: l’agricoltura per autoconsumo è definita “hobbistica”; per essa mancano ancora norme precise; per ora vi sono restrizioni ed esenzioni da obblighi. Innanzitutto è un’offesa definire hobby la coltivazione di aree agricole per autoconsumo, e non solo perché tale non è per la maggior parte degli agricoltori del mondo, ma perché essa ha sia una funzione economica per la famiglia, sia una ambientale-paesaggistica, perché cura aree agricole per lo più marginali (anche solo in termini di entità ridotte delle superfici) che per l’agricoltura per il mercato non è conveniente coltivare (e sono molte in Trentino e in generale nelle aree montane), sia infine una per il controllo e la cura della salubrità dei prodotti che poi vengono utilizzati in famiglia.
La si chiami correttamente “agricoltura per autoconsumo” e in ossequio alla definizione di imprenditore agricolo contenuta nel Codice Civile, si consideri chi la pratica “imprenditore agricolo” (non hobbista), cui giustamente si può applicare una disciplina particolare semplificata.

Una seconda questione è posta dal criterio per giudicare se l’attività agricola è per autoconsumo o meno. Secondo le norme attuali, è per autoconsumo solo quell’agricoltura i cui prodotti vengono consumati “dalla famiglia”, intendendo per essa quella residente nella medesima abitazione. Se un genitore regala a un figlio sposato e che vive in una sua abitazione qualche prodotto della sua campagna, ciò non gli consente più di essere considerato agricoltore per autoconsumo (nel gergo burocratico, “hobbista”) e quindi rientra tra gli agricoltori cui si applicano le norme proprie dell’agricoltura per il mercato. Sono molte, complesse, pensate per lo più per imprese agricole con dipendenti. Ne cito solo una, che fa scalpore: l’agricoltore, anche se fruisce di un figlio sposato per essere aiutato anche occasionalmente in qualche operazione agricola, anche magari per una sola mezza giornata o un’ora, è tenuto a frequentare un corso di 32 ore come responsabile della sicurezza! Si aggiungono i corsi per anti-incendio e altri minori. Si usano i voucher per semplificare le procedure connesse alle assicurazioni sociali, si fanno norme specifiche semplificatrici degli obblighi fiscali e contabili per le imprese agricole che non superano i 7.000 euri di giro d’affari, ma si impongono obblighi assurdi per altre questioni.

Da sociologo non posso non ricordare come, a smentita delle tesi sulla nuclearizzazione della famiglia, anche nella società moderna sopravvive ampiamente la “famiglia estesa”, non più coabitante, ma intessuta di forti legami sociali solidaristici. Possibile che si debbano considerare tali legami irrilevanti o equiparati a quelli di mercato? Eppure la Provincia di Trento si segnala per le sue politiche familiari!

Se poi si entra nel campo della gestione dei rifiuti, lo scarto tra le norme e la ragionevolezza per l’agricoltura di autoconsumo che si allarga alla famiglia estesa o con produzioni di vendita minime è altrettanto evidente. Si pensi ad es. che un sacchetto che conteneva un kg di prodotto fitosanitario ormai consumato non può essere trasportato se non con una macchina aziendale (vale a dire intestata all’azienda, pagando IVA), e non si possono fare più di dieci km e muoversi solo nell’ambito della regione (con problemi per chi, trovandosi ai confini della regione, ha terreni in due regioni).

Giustamente ci si preoccupa della governabilità e dell’assetto istituzionale, ma se, da parte di coloro che, nelle amministrazioni pubbliche, scrivono le regole non v’è una adeguata conoscenza della realtà o si sceglie deliberatamente di mortificare tutto ciò che non rientra tra gli interessi tutelati dalle organizzazioni professionali o da gruppi di pressione, i governi possono durare, l’assetto istituzionale può essere efficiente, ma per il comune cittadino non v’è scampo. Tra i partecipanti al corso qualcuno diceva come sia ovvio che non si può essere in regola. E’ una perdita di senso civico indotto da chi produce norme assurde. Molto meglio cambiare le norme rendendole ragionevoli e osservarle e farle osservare!

Università di Trento: problemi che si aggravano e demoralizzazione docenti e ricercatori

di il 7 Marzo 2017 in scuola con Nessun commento

Sul Trentino di martedì scorso 21 febbraio a mo’ di editoriale il collega Gaspare Nevola ha messo in evidenza punti critici dell’attuale situazione universitaria che vanno ben oltre le difficoltà di erogazioni di cassa da parte della Provincia lamentate nei giorni scorsi dal Rettore in carica e dal Rettore precedente.

Sono ormai cinquantadue anni che, in ruoli diversi, passo le porte dell’Università di Trento e ho visto i diversi andamenti sia della didattica che della ricerca (e una volta si citava anche l’educazione permanente). Dopo la crescita tumultuosa iniziale, la crisi della contestazione, che ha colpito anche la didattica e la ricerca, si erano create le condizioni per un assetto virtuoso: lo Stato sosteneva i costi di normale funzionamento e la Provincia, liberata da questi dopo la statizzazione, integrava le risorse finanziarie soprattutto per la ricerca. Per i mandati nei quali ho diretto uno dei dipartimenti di sociologia e scienze sociali, la ricerca ha fruito di risorse che, in rapporto alle dimensioni, non avevano uguali in Italia. E’ stato il periodo dell’accreditamento scientifico dell’università di Trento a livello internazionale (e non solo europeo). L’Istituto Trentino di Cultura, con i suoi Istituti, tecnologici e umanistici, arricchiva ulteriormente la qualità della ricerca in campi specializzati.

A mio avviso la “riprovincializzazione” dell’università, verso la quale fui critico, ha fatto risperimentare ad essa le strettoie che avevano indotto Bruno Kessler, Presidente dell’Università, a uscire dal sistema Provincia. Non ne è stata l’unica causa. Meno larghe disponibilità finanziarie pubbliche, incertezze sul ruolo dell’ITC e dei suoi Istituti, politiche volte all’autofinanziamento della ricerca tramite concorsi a fondi europei e convenzioni con privati, desiderio di rettori di lasciare un segno del loro rettorato togliendo fondi alla ricerca ordinaria per concentrarli su progetti loro cari ( e l’analisi delle cause richiederebbe più spazio) hanno di fatto ridotto e concentrato le risorse dell’Università di Trento per la ricerca; lo posso dire con certezza per quella del polo sociologico, ma non mi pare che la situazione sia molto diversa in altri settori, specie del polo di città. Ai miei colleghi di Sociologia i fondi di ricerca dell’Università consentono di partecipare a qualche convegno e poco più. Negli anni ’80 e ’90 potevano consentire di fare ricerche in ogni parte del mondo, di creare centri attivi a livello nazionale ed europeo (cito il Centro Internazionale di Ricerca sulle Aree Montane, il Centro Studi Martino Martini, l’Associazione Italo-tedesca di Sociologia, con la sua rivista bilingue e seminari sul bilinguismo in Alto Adige, per limitarmi a iniziative intraprese dal prof. Franco Demarchi, cui ho partecipato). Ora il CIRSAM è morto da anni e le altre iniziative soffrono di penuria estrema di risorse. Difficile non capire come il morale medio dei docenti e dei ricercatori non sia alto. Si può, certo, competere a livello nazionale ed europeo, ma i piani nazionali talora saltano e alla capacità scientifica serve sempre più anche una capacità di fare lobby.

Sul piano della didattica pesano i limiti posti alla disponibilità di posti di docenza, essendo l’università sottoposta a vincoli stretti per la sostituzione di docenti andati in pensione, ma, come dice il collega Nevola, pesa anche la scarsa razionalità delle riforme introdotte, specialmente di quella che ha spaccato il curriculum per lo più quadriennale in una parte triennale e in una seconda biennale (detta ora corso di laurea magistrale). Nessuno pone mano a un’analisi valutativa di questa riforma (detta del 3+2). Non si esclude che per alcuni campi possa essere stata utile, ma per gli ambiti disciplinari che un po’ conosco (quello sociologico in particolare) essa ha creato per lo più confusione. Essendo il percorso biennale della laurea magistrale di fatto aperto a quasi tutti (difficile adottare logiche selettive adeguate, a prezzo della cancellazione del corso di laurea per insufficiente numero di studenti, per di più in presenza di orientamenti di riforma volti a non garantire una continuità di percorso formativo tra i due livelli di laurea) oggi un laureato magistrale in una data materia con buona probabilità ha una formazione più scadente del precedente laureato quadriennale. Nei primi tre anni si fanno meno cose che in quattro e le cose fatte nel corso di laurea magistrale non possono far conto su una continuità formativa con la laurea triennale, con grande eterogeneità delle preparazioni.
Anche per questa via, il morale medio dei docenti non mi pare alto. Non hanno il potere di cambiare e nessuno pone attenzione al problema. Si aggiunga che il potere di governo dell’Università, anche con il nuovo Statuto dell’Università di Trento, è stato spostato all’esterno, secondo logiche che si dicono ispirate al mercato. I Dipartimenti, i loro Direttori, hanno mero potere consultivo; gli altri docenti contano poco o nulla. Lo stesso Rettore può essere un esterno. Si è creato un sentimento di estraneità ai processi decisionali, che non può certo aumentare il morale.

Credo che di questo clima si debba tener conto quando si parla di Università, anche a Trento. La regione vanta autorevoli docenti universitari in Parlamento. Spero che riflettano al riguardo.

Suicidio: bene permettere di aiutare chi dice di volerlo?

Mi ha sorpreso l’intervento sul Trentino del 28 febbraio, a mo’ di editoriale, di Mauro Marcantoni, assai critico delle norme italiane che non consentono a chi ritiene insopportabile continuare a vivere di farsi aiutare a uccidersi (un tipo di eutanasia attiva). Non mi ha sorpreso per la posizione in sé, diffusa negli stati dell’Europa Occidentale più secolarizzati e scristianizzati (tra i quali la Svizzera), quanto perché ad esprimerla è un uomo considerato facente riferimento al mondo cattolico, già importante dirigente provinciale e collaboratore di importanti politici democratico-cristiani, un uomo che riveste tuttora responsabilità di rilievo in Trentino nel campo della formazione e della ricerca con pubblico finanziamento, al quale il Presidente della Provincia vorrebbe affidare un centro di ricerca sull’autonomia.

Rispetto il grido di angoscia che una vicenda come quella vissuta da Fabiano Antoniani può suscitare. Credo però che l’invocazione che si è fatta pressante, anche da parte di Marcantoni, di una legge che autorizzi il suicidio con l’aiuto delle strutture sanitarie, richieda di andare oltre l’emozione suscitata dalla disgraziata situazione di qualcuno.

Marcantoni imputa la mancanza di una legge che consenta suicidio e aiuti a compierlo alla posizione di una “potente parte del mondo cattolico, che non si accontenta di salvare le proprie anime, ma si arroga il diritto di salvare anche quelle altrui”. Qui Marcantoni sbaglia bersaglio: chi non legittima il suicidio e l’assistenza a compierlo non lo fa, come lui dice, per “salvare le anime altrui” (non sarebbe possibile neppure per il cattolico più ortodosso, perché la salvezza dell’anima dipende dalle proprie scelte personali), ma per evitare che l’introduzione del suicidio come pratica possibile per mettere fine a una vita nella sua fase di acuta sofferenza e senza speranza di guarigione di fatto spinga chi avverte di essere di peso agli altri o alla società a togliere il disturbo. Non so se Marcantoni e chi sostiene l’eutanasia abbiano mai visto il film Maranathà: per non essere di peso agli altri, in un villaggio di agricoltura povera, gli anziani erano pressati psicologicamente ad andare a morire in montagna, dipinta come una sorta di “paradiso” (in realtà un cimitero di scheletri all’aperto) non appena perdevano i denti, e poiché l’anziana protagonista non perdeva i denti, che restavano sani, per non essere di peso alla sua famiglia, se li spaccava con una pietra, per andare poi sulla montagna a lasciarsi morire. La sacertà assoluta della vita di ciascuno, dall’inizio nel grembo materno alla fine naturale, è l’unica garanzia etica e pratica che nessuno possa manipolarla, farla morire. Non si tratta di dogmi, come dice Marcantoni, ma di garanzia massima di solidarietà a chi si trova in situazione difficile. E’ stato così per chi era contrario a consentire con assistenza pubblica di uccidere nel proprio grembo di madre un figlio non voluto ed è così per chi è contrario all’eutanasia, anche se richiesta dal soggetto sulla quale si applica, potendo trattarsi di quello che Durkheim chiama “suicidio altruistico”. Nel caso dell’aborto la collettività italiana ha scelto di preferire la volontà della madre alla tutela della vita del figlio, verso il quale non si nutre pietà alcuna (anzi, come in Francia recentemente, si condanna penalmente per legge chi le ragioni di tale pietà le manifesta in modo chiaro). Nel caso dell’eutanasia finora la collettività italiana ha preferito la solidarietà delle cure palliative, dell’assistenza piena fino alla morte naturale, alla legittimazione del suicidio su richiesta, alla cui radice ci può essere mancanza di solidarietà, mancanza di assistenza anche a chi è senza speranza, mancanza di adeguate cure palliative e di sostegno psicologico.

Spero che non si ripeta, come tanti fanno, che l’Italia è “arretrata” per queste ragioni; una società individualista, egoista e materialista, eticamente relativista per cui non si può più dire ciò che è bene e ciò che è male non è un progresso per l’umanità. Non siamo così succubi di quanto altri popoli, più individualisti, più relativisti, con minore rispetto sacro della vita umana, hanno fatto. E nel caso svizzero, come spesso, lo fanno anche per fare “affari”!

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