Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Maggio, 2017

Chiusura reparto maternità a Cavalese (TN): le mistificazioni sulla sicurezza per nascondere le ragioni di ridurre la spesa sanitaria

di il 24 Maggio 2017 in sanità, servizi pubblici con Nessun commento

Dell’8 marzo la pubblicazione sui giornali della decisione governativa di far chiudere il reparto maternità dell’Ospedale di Cavalese per mancanza dei requisiti fissati per garantire la sicurezza dei parti, in particolare la presenza continua di anestesista e pediatra. Secondo il Ministero romano, poiché anche nei parti “fisiologici” vi possono essere imprevisti che richiedono interventi di tale tipo di medici, il reparto maternità va chiuso.

Il comune cittadino si chiede di quali sicurezza parli il Ministero. Con la chiusura del reparto maternità di Cavalese, una madre può partorire con più sicurezza? Se invece di dover affrontare le doglie e il parto con uno spostamento di venti-trenta chilometri al massimo ne deve fare ottanta-cento per recarsi a un ospedale più lontano, Bolzano o Trento, magari con strade difficili per la neve o per il traffico, aumenta la sua sicurezza? L’elicottero è una soluzione sicura? Non basta considerare la sicurezza in ospedale, ma di tutto il processo per arrivare all’ospedale.

Anni fa su incarico della Provincia di Trento dato all’Università, con i colleghi Silvio Goglio e Gianfranco Pola, avevamo esaminato il problema delle dimensioni ottimali per l’offerta di vari servizi e per fare questo avevamo considerato quanto accadeva in altri paesi europei e quanto scritto da esperti. Sempre il tempo di percorrenza per l’accesso al servizio era indicato come criterio per l’organizzazione dei servizi; non c’era solo un criterio di numero minimo di abitanti o di utenti, ma anche di tempo massimo occorrente per giungere al luogo di prestazione del servizio. In generale esso era contenuto, per gli ospedali e per le scuole superiori, nei trenta minuti. Di ciò non mi pare che il Governo abbia tenuto conto. Quanta insicurezza produce?

Non si dica poi che al di sotto di un certo numero di prestazioni (parti, in questo caso) non v’è sicurezza, perché mancherebbe la pratica adeguata al medico. L’aggiornamento e la formazione del personale medico si può fare in molti modi. Tale affermazione fa il paio con quella che al di sotto di un certo numero di alunni per classe viene meno la qualità dell’insegnamento. Si dica invece che il servizio scolastico o sanitario costerebbero pro-capite troppo. Un docente che ha meno alunni in classe li può seguire meglio individualmente; e così la cura di una persona può essere migliore se le persone da curare non sono molte. Ma se il problema è economico, occorre ricordare come per i valori di uguaglianza sul territorio vi è piena legittimità a rivendicare una spesa pro-capite maggiore per le aree a bassa densità. Anche il Consiglio d’Europa, la sua Assemblea Parlamentare, ha preso posizione al riguardo. La Provincia di Trento, utilizzando proprie risorse per la sanità, ha piena autonomia, fatti salvi i livelli essenziali di assistenza, nell’organizzare i servizi sanitari. Il fatto che in nome della sicurezza (indimostrata e per di più non considerante l’insieme delle circostanze) abbia accettato, senza ricorrere alla Corte Costituzionale, una lesione della sua autonomia organizzativa non depone certo a favore dell’efficacia della nostra classe dirigente, e in particolare della maggioranza che amministra. Viene il dubbio che sia stato comodo per il Governo provinciale e la sua maggioranza accettare i criteri nazionali ai fini di risparmiare denaro, sulle spalle delle popolazioni delle valli. Viene anche il dubbio che la maggioranza non abbia voluto “disturbare” il Governo nazionale, data la consonanza politica con esso. In qualche caso lo ha fatto, ma non in questo. Come mai?

E’ vero che le risorse sono diminuite, ma come sempre a pagarne le spese sono le aree periferiche; ricerche sulle aree marginali compiute con il CNR lo dimostrò; le aree periferiche ottengono meno denari e servizi di quelle centrali, considerando parametri come popolazione e territorio. Per questo si suggerì la “territorializzazione” del bilancio provinciale. Ma non se ne fece nulla o quasi, inaugurando, invece, la programmazione negoziata che permette ai politici di “elargire” finanziamenti per qualche opera, sperando nel ricambio del voto. Che garantiscono a tutti uguaglianza di servizi!

Fondamento autonomia speciale del Trentino: accordo Degasperi Gruber assai più che identità e storia di autogoverno

di il 24 Maggio 2017 in autonomia con Nessun commento

Su l’Adige del 15 marzo Gianni Poletti commenta quanto il sito della Provincia di Trento afferma quali fondamenti della speciale autonomia del Trentino, la lunga tradizione di autogoverno e la tutela della lingua e della cultura dei gruppi che convivono nel “quadro regionale”. Quest’ultimo fondamento, che giustifica bilinguismo e proporzionale (nel pubblico impiego), non sarebbe però a suo avviso sufficiente, pesando a suo avviso forse di più la capacità di autonoma organizzazione sociale messa in campo nei secoli e che ha trovato espressione non solo nel principato vescovile, ma anche nel saper far da sé, di cui è espressione anche il movimento cooperativo (ma si potrebbe aggiungere le scuole materne di comunità, il mantenimento delle proprietà collettive e comunitarie, gli usi civici, le mutue, ecc.).

Se si dovesse fare l’analisi dei processi decisionali che hanno portato all’autonomia speciale, non vi sono dubbi che il fattore decisivo siano state l’inclusione nello Stato italiano, a seguito della prima guerra mondiale, di una parte del Tirolo germanofono, le successive politiche di italianizzazione forzata e la richiesta delle popolazioni germanofone di essere comprese nello Stato austriaco dopo la seconda guerra mondiale. Le potenze vincitrici non vollero cambiare i confini italiani a nord (fu fatto ad est) e l’Accordo Degasperi-Gruber annesso al trattato di pace consentì una soluzione praticabile, quella della speciale autonomia regionale nell’ambito dello Stato italiano a garanzia del gruppo tirolese germanofono.

Nessun dubbio che la tradizione secolare di autogoverno dei trentini non abbia avuto un qualche ruolo nei processi decisionali; semmai è stata di aiuto quando si è tradotta in un movimento politico autonomista, con l’ASAR. Ma mai decisivo. Ai trentini l’autonomia è arrivata grazie all’inclusione del Trentino nel “quadro regionale”, e tuttora è così nonostante la fortissima riduzione della portata di tale “quadro” motivata da parte del gruppo germanofono dell’Alto Adige dal non voler condeterminare le proprie scelte con i trentini e dai trentini, per gran parte, da un gretto egoismo provinciale vestito da autonomia. Ben poco ha pesato la presenza ladina, la cui costruzione come “minoranza linguistica” è per gran parte recente, specie in Val di Fassa. E lo stesso si dica per i pochi trentini germanofoni di Valle del Fersina e di Luserna. Piccole minoranze etnico-nazionali ci sono in molte regioni ad autonomia ordinaria (si pensi ai croati, agli albanesi nell’Italia meridionale o ai germanofoni del Veneto).

Ciò precisato, in base a indagini compiute su campioni rappresentativi ormai anni fa, non mi sentirei di negare che a fondamento dell’autonomia vi sia una specifica identità etnica trentina, seppur variegata da valle a valle. E tale specificità è proprio quanto, non volendolo, illustra in modo interessante anche Gianni Poletti, ossia l’essere, dei trentini, mezzi italiani e mezzi tedeschi. Si tratta di specificità di identità culturale (mescolanze), ma anche di identità etnica, derivante da migrazioni e successive integrazioni. Potrebbero aiutare ricerche sui cognomi e sui matrimoni. E specificità culturale ed etnica sono la base del sentimento dei trentini di essere “popolo”. Certamente la forte immigrazione da altre regioni specie a Trento rende i cittadini di Trento meno consapevoli di essere “popolo” con una sua identità, ma nelle valli la situazione è diversa.

Tale specificità di identità non è certo la ragione decisiva della speciale autonomia, come non lo è le capacità di autonomia sociale, la tradizione secolare di autogoverno e il forte senso di appartenenza provinciale, ma tutti questi elementi sono come un volano che consente di superare i “punti morti” del motore dell’autonomia istituzionale, dando motivazioni anche per non arrenderci alle tendenze presenti a livello nazionale di fare passi indietro nell’autonomia istituzionale. Certo è un volano che può perdere peso se la comunità trentina non attiva un progetto che contrasti il processo in atto di italianizzazione, pur esso documentato da indagini compiute. La responsabilità delle forze culturali, sociali, politiche ed economiche è chiamata in causa. Il futuro non è già scritto, non è un destino.

Note su posizioni di uomini di Chiesa su migrazioni e su ineluttabilità della fine della comunità (parrocchiale)

di il 24 Maggio 2017 in comunità, religione con Nessun commento

Accanto ai complimenti per una Vita Trentina sempre più ricca di contenuti e all’augurio che, “via la pietra”, (bel titolo dell’ultimo numero del 16 aprile) riscopriamo l’importanza anche per la nostra speranza di vita, del sepolcro vuoto per la resurrezione di Cristo, mi permetto qualche osservazione.
La prima riguarda l’intervento di Gian Carlo Perego direttore generale della Fondazione Migrantes e vescovo eletto – ma i vescovi non sono nominati?- di Ferrara-Comacchio. Nel valutare criticamente alcuni recenti orientamenti del Governo in merito agli immigrati senza visto di ingresso (volti a rendere un po’ meno lenta e un po’ meno inefficace la procedura di valutazione delle richieste di asilo), sembra non distinguere chiaramente i casi di coloro che fuggono da morte e persecuzione (meritevoli di asilo) da coloro che immigrano eludendo le procedure di legge al solo scopo di migliorare le loro condizioni di vita. In virtù di accordi internazionali ai primi vanno riconosciuti “diritti”, mentre i secondi sono tenuto a osservare le leggi che regolano l’immigrazione. Di questo dovere, di questo rispetto della “legalità” non c’è traccia nell’intervento di Gian Carlo Perego, che, anzi, invita a trovare modalità di eluderla, quasi che vi sia un diritto universale di migrare dove si desidera e un diritto di chi ha tale convinzione di facilitare l’entrata irregolare di vuole immigrare.

Accanto al giusto richiamo a rafforzare la cooperazione internazionale per offrire opportunità di vita migliori nei paesi di partenza dei migranti, il Direttore della Fondazione Migrantes auspica anche che si sospenda la vendita di armi a certi paesi. Vi è già una regolazione della materia e se vi sono violazioni di essa serve intervenire, ma occorre prendere atto che la vendita di armi da parte di un paese non per definizione porta a un aumento di conflitti armati in altri paesi. Le armi possono servire a mantenere l’ordine sociale e la pace interna e internazionale e comperarle invece di costruirsele in casa non è un male di per sé.

Anche sull’accoglienza dei minori non accompagnati servirebbe qualche prudenza in più: nulla da dire su chi si dice strumentalmente appena sotto i diciotto anni per sfruttare un diritto pensato per situazioni più drammatiche di abbandono?

La seconda osservazione riguarda l’intervento di Piergiorgio Cattani, molto articolato. Alla comunità parrocchiale, in crisi, non più capace di fornire “un’educazione alla fede” andrebbe per Cattani sostituita una parrocchia di grandi dimensioni (con più preti), articolata in piccoli e piccolissimi gruppi diversificati. E’ suo anche il dubbio che tale proposta possa trovare realizzazione. Vorrei, da “sociologo delle comunità locali” far notare che da molti decenni ormai alla scuola di pensiero sulla “dissoluzione” (individualista) delle comunità locali, (cui sembra ispirarsi Cattani) se ne affianca un’altra, “comunitarista”, secondo la quale la comunità può essere “costruita” proprio a partire anche dalla “prossimità residenziale”. Molti anni fa invitai a Trento il sociologo americano Edward Shils, a parlare proprio su tale prospettiva. Perché la fede non può aiutare a costruire comunità tra chi ha la stessa scuola materna per i figli, la medesima scuola elementare, i medesimi giardini pubblici, i medesimi negozi di vicinato, il medesimo bar, il medesimo impianto sportivo, ecc.? Ciò non esclude che siano attivi piccoli gruppi e movimenti magari a scala territoriale più ampia, ma da sociologo vorrei invitare a riflettere sulla diffusione di tale associazionismo, certamente più selettivo, meno adatto a interessare il comune fedele, che si accontenta di partecipare alla messa festiva, di far battezzare i figli, educarli a giovarsi e giovarsi personalmente dei sacramenti della penitenza, dell’eucarestia, della cresima, del matrimonio e dell’unzione degli infermi, di chiedere la presenza del prete nel momento della morte e della sepoltura di un proprio caro, di impegnarsi occasionalmente in qualche attività di carità o di testimonianza. E’ troppo poco? Sinceramente mi pare molto, ed è il molto che già offre l’attuale parrocchia. Ridotta a semplice erogatrice di servizi, come afferma Cattani? Mi pare ingeneroso verso i parroci e i loro preti collaboratori (un mio figlio è uno di questi) e ingeneroso verso i “fratelli di fede”, cristiani “ordinari”.

Le mistificazioni sul diritto fondamentale di ciascuno a migrare dove vuole e sui vantaggi dell’immigrazione

di il 24 Maggio 2017 in migrazioni con Nessun commento

Vita Trentina del 23 aprile scorso dedica due intere pagine al fenomeno migratorio, tutte improntate ad esaltare le migrazioni come fattore di progresso, benché siano causate da guerre, carestie, ecc.. Riprendo i titoli in sequenza: “il diritto al futuro per tutti”, “la migrazione motore dell’umanità”, “arrivederci mondo vecchio, benvenuto mondo nuovo” , “migrare: perché?”. “oltre il confine?”.

Poiché, anche e soprattutto come sociologo, e non solo per aver letto ricerche e libri altrui, ma anche per averne fatte di persona assieme a colleghi dell’Università, ho maturato valutazioni in contrasto con quelle propugnate da Vita Trentina, se lo consentirà, vorrei elencare alcune obiezioni.

Prima tesi: il diritto a migrare è nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, sottoscritta da tutti gli stati aderenti all’ONU. Quindi ciascuno avrebbe il “diritto ad avere i documenti per accedere a un paese straniero”. Mi chiedo perché l’autrice trasformi il diritto di muoversi liberamente entro lo il proprio paese e di lasciare il proprio paese (articolo 13 della Dichiarazione) nel diritto ad entrare liberamente in un altro paese. Una cosa è l’obbligo degli stati a lasciare libertà di movimento ai propri cittadini, compreso quella di lasciare il proprio paese e di ritornarvi (libertà negata spesso in stati autoritari e totalitari) e altra cosa è l’obbligo di ogni stato a lasciar entrare nel paese chiunque lo desideri. Tale obbligo non c’è e quindi non c’è il diritto di immigrazione. Mi chiedo ancora perché l’autrice dell’articolo ometta di citare l’art. 29 della medesima Dichiarazione che afferma come tutti i diritti e le libertà riconosciute, lo sono nel rispetto delle leggi di ciascuno stato volte tra l’altro a “ soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica”. Spiace che si faccia disinformazione.

Seconda tesi: le migrazioni sono un fenomeno molto positivo: “portano vita nuova”, rimediano ai problemi portati dal calo demografico, coprono la necessità di svolgere lavori sgraditi e meno pagati, portano diversità che possono creare qualche problema, ma che sono ricchezza di cultura, “tesori di umanità”. Mi chiedo perché l’autore esalti aspetti positivi e minimizzi quelli negativi. L’emigrazione “forzata” è un dramma prima di tutto per chi la pratica: l’autore cita i successi dell’emigrazione italiana all’estero; credo che abbia avuto poche occasioni di parlare con gli emigrati. La stessa Chiesa, anche in Trentino in passato, quando i trentini emigravano, ha dato il primato al diritto di restare a vivere nella propria patria. C’è calo demografico? Perché non mobilitarsi per mettere in condizione le famiglie di fare i figli che desiderano avere (almeno il doppio di quelli che mediamente hanno) e invece benedire chi, immigrato, si adatta ad essere pagato poco e trattato male? Accoglienza di carità o egoismo mascherato, taciuto, ma praticato? Perché sottovalutare i conflitti tra popolazioni di cultura, etnia, razza, diverse? L’autore ha mai considerato ciò che accade nei paesi con forte immigrazione, con grandi minoranze etnico-linguistiche-razziali? Dagli USA al Brasile, dal’Africa sub-sahariana all’Asia, dalla Francia alla Germania e alla Gran Bretagna è tutto un pullulare di conflitti violenti intrastatali fra tribù, etnie, nazionalità, razze. Non si può minimizzare; anche qui si fa disinformazione.

Terza tesi: l’emigrazione è causata da “dittature, persecuzioni, guerre, genocidi, pulizie etniche e violenze”; si traduce in flussi di manodopera laddove si può vivere meglio e porta benessere ai residenti, che per il loro lavoro vengono pagati meglio, mentre possono giovarsi di prestazioni da parte di immigrati a costo basso; in sintesi “vantaggi per tutti”, autoctoni e immigrati. Mi chiedo innanzitutto per quali ragioni lo stato di rifugiato o equiparato, che è riconosciuto nel caso di persone che sfuggono a persecuzioni, guerre, genocidi, pulizie etniche, emergenze umanitarie, sia invece riconosciuto a un’esigua minoranza degli immigrati “richiedenti asilo”. Perché tacere sul fatto che la maggior parte degli immigrati senza autorizzazione sono giovani, più istruiti della media dei compatrioti, con più disponibilità di denaro degli altri, necessario per pagare i costi del viaggio (comprensivo di compensi per i trafficanti d’uomini senza scrupoli)? Perché tacere del fatto che in tal modo si privano le comunità di origine della componente più giovane, istruita e attiva, lasciando nei villaggi uomini e donne meno attivi, anziani, donne e bambini? L’enciclica “Populorum progressio” di Paolo VI è superata|? Come poi magnificare il fatto che gli autoctoni possano “lucrare” sui bassi salari degli immigrati? E poi se i lavori sgradevoli venissero pagati di più, per compensare la loro sgradevolezza, sicuri che non si trovino tra gli autoctoni persone disposte a farli?

Quarta tesi: “I muri sono bestie odiose”, “il muro non risolve, il muro complica le relazioni, è insostenibile economicamente e inefficace”. L’argomentare è meno apodittico, meno unilaterale, ma la conclusione è una condanna di confini e muri. E’ vero, i muri non piacciono, ma perché non riconoscere che talvolta servono. Per renderli compatibili con le esigenze di andare oltre, senza creare problemi, è utile che siano provvisti di varchi controllati. Perché tacere del fatto che i varchi ci sono, ma non si vuole sottostare alle regole per passarli? Gli emigrati italiani e trentini dal XIX e XX secolo (e anche quelli del XXI) hanno seguito le regole. Le nostre case hanno muri e porte: i muri sono fatti per evitare che in casa entri qualcuno che può creare problemi; le porte per far entrare chi è invitato a entrare, anche se è lui di sua iniziativa a bussare. E le porte ci sono anche col muro tra Messico e USA, tra Spagna e Marocco. Non si può tacere su chi le porte le vuole sfondare e le sfonda. Mi ha sempre colpito come la parte di mondo cattolico che fa della legalità un valore assoluto (in realtà non lo ha), di fronte alla legalità nei processi migratori agisca al contrario, cerchi di eluderla e aiuti a violarla. Le regole di apertura delle porte sono troppo strette? Si agisca politicamente per cambiarle.

Caro Direttore, se ho bestemmiato merito di essere schiaffeggiato, ma se non ho detto niente di male, perché mi schiaffeggia? Le assicuro che le pagine sulle migrazioni di VT sono suonate schiaffo per cristiani che vedono più degli autori delle pagine citate “il rovescio della medaglia”, da loro ben nascosto.

(lettera a Vita Trentina, non pubblicata perchè definita “ridondante”)

I “minimi” fuori mercato: un mondo da valorizzare

di il 24 Maggio 2017 in agricoltura, comunità con Nessun commento

Leggo su l’Adige del giorno della Festa della Liberazione una lettera di Michele Lucianer, che ho conosciuto personalmente al funerale di suo padre Dario Lucianer, uno dei “grandi vecchi” della DC (poi Centro Popolare), il quale in modo simpatico alla Festa dei partigiani vorrebbe aggiungere quella della liberazione dalle lettere di Gubert, pubblicando le quali Lei continua ad affliggere i lettori. Come può un professore di sociologia rurale trasformarsi in un “uomo della gastronomia primordiale” si chiede e chiede a me Lucianer? E della primordialità della gastronomia sarebbero indicatori la polenta fatta sul “spolèr”, per dirla alla primierotta, le “luganeghe de musat”, da gustare al maso, rimasto di sua proprietà non avendogli tolto la nuova politica che una parte modesta dei soldi “privilegiati” che gli servono per pagare il mutuo per la sua ristrutturazione.

Capisco che per uno che vive nel “golfo della pianura padana” com’è la Val D’Adige, che è cresciuto in una famiglia di commercianti, io possa costituire un “caso clinico” da studiare; non credo di esserlo per quella parte di trentini che abitano nelle valli più scoscese e periferiche e che provengono da famiglia contadina, per di più povera. Gli animali a fine carriera non si facevano (e non si fanno) incenerire, il cibo non veniva cotto e la cucina non veniva riscaldata con il petrolio o il gas trasportato per migliaia di chilometri con costi a carico del destinatario, ma con la legna “da fare” ogni anno nel bosco, di proprietà o più spesso di uso civico, il maso di mezza montagna non si usava come “buen retiro” (personalmente non lo ho mai usato come tale), ma come base per far pascolare i pochi animali specie in autunno e soprattutto per tagliare l’erba e seccarla in fieno per l’inverno. Se Lucianer vuole fare ogni tanto un’esperienza di fatica, gli offro di venire a tagliare l’erba e a portare il fieno nel fienile nel “buen retiro”, alias “maso”, sopra Pieve, (per il quale ho pagato per gennaio e febbraio 40 euri di bolletta elettrica senza neppure accendere una lampadina) a servizio di un prato ripidissimo, diviso un tempo fra tre proprietari (uno dei quali una mia nonna, Turra Orsola), del quale è stato evitato il degrado grazie al mutuo di cui sopra.

Michele Lucianer pensa che il movente principale del mio scrivere siano modesti interessi personali; questi non sono che lo spunto per richiamare l’attenzione dei responsabili delle scelte che gravano su un “mondo minore”, specie agricolo, specie orientato all’autoconsumo, scelte che penalizzano tale mondo in nome della “modernità” che vede positivamente solo tutto ciò che passa per il mercato. La “post-modernità” da decenni ha evidenziato le unilateralità della modernità. E così la qualità fa premio sulla quantità, il mercato “a chilometri zero” fa premio sul mercato globalizzato. Se ne sono accorti in molti, ma restano pur sempre i “minimi”, quelli fuori mercato, che pure svolgono funzioni importanti per il benessere collettivo, magari anche solo ambientale e paesaggistico (quanti prati abbandonati se si dovesse fare affidamento solo sugli agricoltori per il mercato!), quelli che non hanno uffici studi e addetti alla pubbliche relazioni o sindacato di categoria che ne salvaguardano gli interessi. Perché un sociologo che viene da questo mondo di “minimi”, visto che Lei, Direttore, è aperto, specie un sociologo rurale che ha visto tale attenzione sviluppata anche altrove in Europa (come non ricordare Pierre Boisseau, in Francia), dovrebbe tacere di fronte a scelte che lo penalizza? Per evitare che uomini con altra esperienza ne fraintendano quanto dice o scrive, riducendo tutto a gretto egoismo e a primordiale gastronomia?

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