Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Settembre, 2018

L’insegnamento sociale dei Papi non si riduce alla recente insistenza sull’accoglienza incondizionata degli immigrati

di il 11 Settembre 2018 in migrazioni, religione con Nessun commento

Dalle omelie domenicali di parroci e sacerdoti che li aiutano agli interventi di vescovi e di Papa Bergoglio, è martellante l’invito all’accoglienza degli immigrati, indipendentemente dalle ragioni dell’immigrazione e dal rispetto delle leggi che regolano l’immigrazione. A cominciare da me, ma penso che ciò valga anche per molti cristiani attenti ai messaggi che vengono dai “pastori”, questa insistenza li pone in conflitto con le valutazioni, che, da laici battezzati e membri della Chiesa, danno del fenomeno migratorio e del modo per affrontarlo. Si aggiunga, poi, che le forze politiche che più enfatizzano gli insegnamenti dei pastori in merito all’accoglienza incondizionata, e quindi più sono in sintonia con parroci, vescovi e Papa, sono quelle che invece più criticano insegnamenti della Chiesa in materia di famiglia, di sessualità e di rispetto della vita umana dal concepimento alla morte naturale. Per contro le forze politiche che sono per un controllo più efficace dei processi migratori sono quelle che, invece, sono più vicine all’insegnamento delle autorità ecclesiali proprio sui temi della famiglia e della vita.
Proporrei all’attenzione dei lettori, specie a quelli cui interessa la coerenza tra fede religiosa cristiana e scelte sociali, culturali e politiche, una riflessione sull’insegnamento sociale della Chiesa negli oltre ultimi cento anni nei quali il fenomeno migratorio ha coinvolto gli stati moderni, avvalendomi di un recente articolo in merito alle posizioni dei Papi, pubblicato sul quotidiano on line “In Terris”. Mi limito a ricordare poche frasi. Le migrazioni sono state imponenti da Italia e da molti paesi europei, specie verso le Americhe, già dalla seconda metà del XIX secolo. Pio X, ancora non Papa (1887), sollecitava i “pastori” a scoraggiare coloro che intendevano emigrare e denuncia le pratiche affaristiche di coloro che organizzano l’emigrazione, illudendo i poveri contadini. Pio XII, nel 1946, in un discorso al Commissario USA per l’immigrazione, non solo riconosceva la possibilità di una regolazione governativa dei flussi migratori, pur di fronte a pressioni per allentare le misure restrittive degli USA nei confronti della forte domanda di emigrare in America all’indomani della guerra, ma non sconfessa le stesse misure restrittive americane, che debbono tener conto, a suo dire, non solo dell’interesse di chi vuole immigrare, ma anche del “benessere della nazione”. Giovanni XXIII, oltre a richiamare il fatto che esistono diritti degli immigrati anche se non cittadini dello stato, nella “Pacem in terris” insegna come debba essere il capitale a spostarsi dove non c’è lavoro e non viceversa (equivale all’aiutare i popoli poveri a casa loro). Paolo VI nella “Populorum progressio” evidenzia i mali da cui scaturiscono le spinte ad abbandonare la propria terra: la concezione che il motore essenziale dello sviluppo economico sia il profitto, gli abusi del liberismo sfrenato che penalizza le economie dei paesi del Terzo Mondo e la miopia degli organismi internazionali. Giovanni Paolo II, suggerisce in un messaggio perla Giornata dell’Emigrazione (1995), di non cedere alla tentazione della paura e al sentimento di insicurezza di fronte ai fenomeni migratori, ma non predica l’accoglienza illimitata e auspica una regolamentazione legislativa in grado di arginare il fenomeno dell’immigrazione illegale e del suo sfruttamento da parte di organizzazioni criminali. Nel 2003, in “Ecclesia in Europa” richiama le autorità pubbliche ad esercitare “ il controllo dei flussi migratori, in considerazione delle esigenze del bene comune”. Benedetto XVI è ricordato per il suo pronunciamento sul “diritto a non emigrare” (Giornata del migrante e del rifugiato, 2012). Da cardinale si era espresso a favore della limitazione del numero degli sbarchi di migranti. E nello scegliere chi ammettere, sosteneva giusto preferire “ i gruppi che sono più integrabili, i più vicini alla nostra cultura”. Papa Ratzinger richiamava anche la responsabilità degli stati di partenza dei migranti per rimuovere le cause dell’emigrazione irregolare e per combattere le forme di criminalità ad essa collegate (2012).
Come si può constatare, l’insegnamento dei Papi sulle migrazioni non è per l’accoglienza incondizionata e lo stesso Papa Francesco, pur insistendo sull’accoglienza, senza precisare i limiti, nel ritorno dal suo recente viaggio in Irlanda e in atre occasioni, ha ribadito che è meglio non accogliere se non si ha la possibilità di integrare. E integrare vuol dire mettere nelle condizioni di avere un lavoro, un’abitazione, istruzione, cura della salute, capacità comunicative (competenza linguistica) con gli altri, interiorizzazione dei valori comuni della società ospitante che induca almeno a un rispetto delle leggi e della civile, pacifica convivenza e collaborazione.
In definitiva anche per l’insegnamento sociale della Chiesa Cattolica, non è sufficiente predicare, come accade quasi sempre in questi ultimi anni, che i cristiani debbono accogliere gli immigrati come fratelli, ma occorre valutare le conseguenze di migrazioni sulla società di partenza e sulla società di arrivo, stabilendo una maggiore giustizia nei rapporti tra i popoli, fissando regole per i movimenti migratori, regole che in ogni caso stabiliscano limiti, i quali a loro volta devono essere applicati in modo efficace e tenendo conto della maggiore o minore predisposizione all’integrazione sulla base della maggiore o minore vicinanza culturale.
Perché ciò non viene più detto o detto raramente nelle chiese? Più facile semplificare, invece che impegnare la responsabilità dei laici cristiani a proporre criteri di valutazione, regole e strumenti?

Fondere in un’unica cassa rurale tutte le casse rurali del Trentino rafforza l’autonomia?

Al Direttore Pierangelo Giovanetti,
il suo editoriale su l’Adige di domenica 2 settembre suggerisce l’unificazione di tutte le casse rurali trentine in un’unica Cassa, che sarebbe più forte, più capace di dare sostegno alla Cassa Centrale Banca, una delle tre organizzazioni che raggruppano le casse rurali italiane in ossequio alle volontà di controllo e omologazione delle banche centrali europea e italiana, cui il governo di centro-sinistra si è adeguato.
Dopo le imposizioni fatte dal Governo Renzi alle banche popolari di trasformarsi in società per azioni, senza coinvolgerle nelle scelte, per le casse rurali si è attivata una parvenza di processo partecipativo, che aveva dato come uno dei risultati la possibilità per le casse rurali trentine e per quelle altoatesine-sudtirolesi di organizzarsi in un gruppo autonomo. I sudtirolesi lo hanno fatto, mentre i trentini no, restii a rinunciare a proiezioni di attività e di servizi, compresa Cassa Centrale Banca, che le casse trentine avevano realizzato in aree confinanti di altre regioni e non solo. Poteva essere l’occasione per realizzare un’autonomia a livello provinciale, che ora non è più garantita perché la Cassa Centrale Banca non è e non sarà mai in maggioranza trentina, al di là, per ora, nella fase di avvio, di sede e dirigenti di più alto livello. Una logica “aziendale” ha prevalso sulla logica dell’autonomia sociale, economica e politica.
Può un’unica Cassa Rurale del Trentino costituire il versante bancario dell’autonomia trentina? Lei lo auspica, ma a mio avviso trascura alcuni aspetti. Il primo è quello dell’autonomia di ogni Cassa Rurale nei confronti della banca capogruppo. Come è noto, le singole Casse Rurali non avranno più la piena libertà di scegliersi i propri amministratori. Sono previste, inoltre, limitazioni attinenti alla libertà di governare il credito. Si è approfittato delle conseguenze negative della crisi economica, tra le quali i tanti crediti a rischio o perduti, per togliere autonomia alle singole casse rurali e per spingere per la loro concentrazione. Cassa Centrale Banca, che non sarà più, a regime, in mani trentine, potrà interferire sull’autonomia anche dell’eventuale Cassa Rurale del Trentino. E’ da notare come la grande dimensione delle banche non abbia garantito la loro buona gestione (vedansi banche in Toscana, in Veneto e altrove, per non pensare agli USA) e come anche piccole casse rurali siano vitali e in equilibrio economico nonostante la crisi. Un conto è la vigilanza, necessaria, e un altro la limitazione strutturale dell’autonomia. Mi ha poi sorpreso che quando l’attuale governo ha dichiarato di voler rivedere le disposizioni sulle banche cooperative, ridando loro più autonomia, sia stata Cassa Centrale Banca, che pur si presentava più “autonomista” nel confronto con la centrale alternativa romana, a protestare, come se una modesta dilazione della realizzazione dei gruppi bancari contasse di più della correzione della riforma in direzione di maggior rispetto dell’autonomia.
Lei prospetta i vantaggi di una Cassa rurale più grande, dominante in Trentino; ma sarebbe pur sempre una piccola banca rispetto a quelle nazionali. Non è sulla dimensione o sulla “dominanza” per sportelli o per masse di denaro raccolte e prestate, che una banca di credito cooperativo si qualifica.
Il secondo ordine di obiezioni alla proposta che ha avanzato riguarda il versante della partecipazione dei soci. I processi di fusione tra casse rurali hanno portato ormai, Lei osserva, a rendere impossibile tale partecipazione. Ed è vero, anche se una dimensione di valle, qual è l’assetto prevalente attuale, permette ancora assemblee con un senso. Impossibile che l’abbia un’assemblea provinciale, come Lei stesso riconosce, ma anche un’assemblea di delegati eletti da assemblee locali non sfugge alla difficoltà. Il caso della mutua ITAS ne è la dimostrazione. Di fatto una Cassa Rurale unica in Trentino vuol dire seppellire la dimensione di “popolo” che la cooperazione di matrice Raffeisen, come quella trentina, ha avuto. Il fatto che ora la partecipazione sia difficile dovrebbe orientare a renderla più efficace, non solo a prenderne atto, camminando in direzione di renderla ancora più difficile. Se non si fa, vuol dire che alla dimensione partecipativa da parte dei soci non si crede più e che un settore della cooperazi

Le reazioni all’immigrazione non si possono giudicare solo sulla base di pochi dati sui flussi

L’Adige dello scorso 10 agosto pubblica con apertura in prima pagina un articolo di tre docenti e ricercatori di università partenopee (primo firmatario l’ordinario di Economia e politica industriale Alfredo Del monte) teso a dimostrare che l’allarme per la presenza di immigrati in Italia è sostanzialmente ingiustificata; esso, anzi, non è che uno strumento di propaganda politica della “destra” radicale.
Le argomentazioni sono fondate su alcuni dati, di flusso (primi mesi del 2018 in particolare) e di “stock”, ossia di quantità di immigrati presenti, sia in termini assoluti che relativi, ossia in percentuale rispetto alla popolazione residente. Sia in Europa nel suo insieme, sia in Italia, le cifre non sono tra le più alte nel mondo per l’Europa e in Europa per l’Italia. Gli autori ne concludono che l’allarme per gli immigrati, nei paesi europei e in Italia, è semplicemente uno strumento di propaganda politica. Nella seconda parte dell’articolo portano dei dati su quali siano le condizioni sociali che facilitano l’adozione di atteggiamenti anti-immigrati: tra esse età più avanzata, sesso maschile, bassa istruzione, vivere nei centri minori, orientamento politico di destra.
Essendomi da sociologo in più occasioni e in diversi modi occupato di effetti dell’immigrazione e di valori, anche con ricerche empiriche, in più paesi (europei, ma anche di altri continenti), non posso che rilevare come l’approccio al tema adottato dagli estensori dell’articolo sia carente sotto alcuni punti di vista, specie sociologici.
Primo problema: alcune cifre si riferiscono ai “nati all’estero” e altre a “rifugiati”. Assai diversi i casi di legittimazione di presenza in una comunità statuale di chi è stato autorizzato ad entrarvi o per l’aver ottenuto un visto prima di partire o per aver avuto il riconoscimento dello status di rifugiato e quella di chi, invece, è semplicemente un immigrato clandestino (anche se “richiedente asilo”). A creare allarme è il mancato controllo dei flussi, con l’entrata clandestina dei più. Il riferimento prevalente ai flussi del 2018, ridotto rispetto al 2017, è sviante, dato che l’allarme sociale creato da anni di non controllo dei flussi non può certo spegnersi per una flessione, di incerta durata, di pochi mesi.
Secondo problema: il dimostrare che l’Italia non è al primo posto per i flussi di immigrati (ma è comunque tra i primi), nulla dice circa la non giustificabilità dell’allarme sociale derivante. Su questo incidono i numeri assoluti, qualsiasi sia l’ordine di rango nella graduatoria tra paesi. L’allarme sociale può essere giustificato in tutti i paesi nei quali i flussi superano un certo livello. Chi dice che non ci sia in Grecia e in Spagna, che precedono l’Italia nei primi mesi del 2018? A creare allarme è il fatto che non si sono creati strumenti di controllo efficace dei flussi (date anche le procedure giudiziarie per verificare il titolo all’asilo dei richiedenti e l’incapacità di rimandare ai paesi d’origine coloro che tale titolo non hanno, e sono di gran lunga la parte maggiore). A creare allarme è anche la veloce mutevolezza dei percorsi di immigrazione clandestina in ragione delle opportunità rinvenute dai trafficanti.
Terzo problema: le difficoltà ad accettare i flussi migratori da parte della popolazione autoctona non dipendono solo dalla loro entità, ma dai caratteri eco-socio-culturali degli immigrati. L’ipotesi più accreditata in sociologia, quella chiamata della “distanza culturale”, formulata da L.Warner sulla base di dati nord-americani, spiega che maggiore è la distanza culturale tra popolazione della società di arrivo e popolazione della società di partenza, maggior sono le difficoltà di integrazione degli immigrati. La differenza “razziale”, così come definita dalla maggior parte delle persone, aggiunge ostacoli difficilmente superabili. Incidono poi nel rallentare l’integrazione l’ordine di arrivo di un gruppo etnico-nazionale, la velocità del flusso, le diversità del modo di esercitare i ruoli familiari e sessuali, le differenze di strutture religiose, lo status socio-economico degli immigrati, e così via. Sociologicamente ingenuo, quindi, attribuire l’allarme sociale e le difficoltà ad accettare gli immigrati a scelte opportunistiche, strumentali, di forze politiche di destra.
Da ultimo una nota sui risultati delle analisi compiute dai tre studiosi sui dati dell’European Social Survey. Essi grosso modo corrispondono a quelli personalmente ritrovati nelle indagini dell’European Values Study e del World Values Survey. I tre studiosi tendono ad avallare la tesi che sia l’arretratezza socio-culturale a sollecitare sentimenti anti-immigrazione. Ho preferito e preferisco l’interpretazione opposta, ossia che sono alcune categorie (anziani, poco istruiti, abitanti nei centri minori) a sentirsi meno capaci di proteggersi di fronte alle incognite derivanti dalla presenza di immigrati incontrollati. E non trascurerei il fatto che queste categorie sono anche meno abili a dissimulare opinioni “non politicamente corrette” rispetto ad altre categorie, quelle dei più istruiti, giovani, di status socio-economico più elevato. Un sociologo lo sa, forse degli economisti lo sanno meno.

Controllare i flussi di immigrazione non è manifestazione di razzismo

di il 11 Settembre 2018 in etica pubblica, migrazioni con Nessun commento

Varie misure di controllo dell’immigrazione ed episodi di aggressioni, anche in Italia, a persone non bianche sono state occasione per lanciare l’allarme di un nascente razzismo italiano, assai pericoloso dati i precedenti storici che hanno portato a persecuzioni e a gravi discriminazioni verso persone definite di “razza diversa”, di “razza inferiore”. Si citano le politiche al riguardo del nazismo tedesco (cui anche l’Italia fascista ha in parte ceduto), dei bianchi in Sud Africa prima dell’indipendenza, ma anche dei bianchi nei confronti dei neri negli USA fino alle lotte di Martin Luther King.
Capisco che chi si oppone alle misure di controllo dell’immigrazione tenda a qualificarle come espressione di razzismo: il giudizio generalmente molto negativo nei confronti di questo viene fatto riverberare sulle politiche di controllo dell’immigrazione Tuttavia per onestà intellettuale si dovrebbe a mio avviso distinguere bene due fenomeni, quello del razzismo e quello del controllo dei flussi migratori. Il razzismo, oltre a enfatizzare le differenze “razziali” tra le persone, afferma la superiorità di una razza su tutte le altre o su una o più delle altre e ciò fornisce la legittimazione di misure discriminatorie nei confronti di chi è ritenuto di razza inferiore. Il controllo dei flussi migratori, invece, è espressione della volontà di una comunità (etnica, nazionale, territoriale) di decidere chi è ammesso a farne parte e quali sono le procedure per farlo. Lo stato moderno valorizza le comunanze etnico-nazionali e la residenza territoriale, ma in altre epoche la cittadinanza aveva altri principi organizzativi. Per rifarsi a un esempio noto a molti, Paolo di Tarso, a differenza di Pietro, aveva la cittadinanza romana, pur essendo entrambi ebrei.
Confondere il razzismo con la volontà di controllare i confini di appartenenza a una comunità civile è un’operazione intellettualmente errata (quando non è disonesta). Si può, certo, desiderare che tra gli uomini scompaiano tutti i confini, che gli uomini si sentano tutti membri di un’unica comunità civile (stato universale). Ma di fatto tra gli uomini si parlano lingue diverse, seguono religioni diverse, hanno fini diversi, vivono costumi diversi, per cui il convivere più vicini con chi parla la stessa lingua, crede nella medesima religione, ha la medesima concezione del come regolare le scelte collettive, e così via, è finora parsa la soluzione che meglio garantisce la pacifica convivenza. Troppa diversità di cultura. di storia, crea difficoltà maggiori e conflitti. Stabilire dei confini tra comunità politiche e controllare i flussi di persone, cose, messaggi attraverso essi è stata una soluzione intelligente. Altrimenti si tornerebbe a movimenti incontrollati, come nelle epoche delle crisi dei sistemi politici; si pensi per es.ai flussi di popolazioni al tramonto dell’impero romano, incontrollabili e causa di rovine.
Diversità culturali possono associarsi a diversità comunemente definite come “razziali”, perché così sono percepite principalmente in base al colore della pelle. Razzismo sarebbe stabilire regole diverse solo a seconda dell’appartenenza razziale. Ma non è razzismo se il controllo dei flussi in base a comunanze o lontananze culturali, di lingua, di costume, di religione, ecc. porta a distinguere chi è ammesso e chi no a far parte della comunità politica. Ovviamente fatti salve le convenzioni tra comunità politiche a tutela del diritto alla vita.
L’Europa a fatica cammina verso una riduzione della portata dei confini tra gli stati che ne fanno parte. Si discute tra sovranisti ed europeisti. I processi di fusione o di confederazione delle comunità politiche sono lenti e possono subire rallentamenti e fallimenti. Sbagliato qualificare di espressione di razzismo le misure che gli stati e l’Unione Europea assumono per controllare i flussi di persone attraverso i loro confini. Neppure la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, massima espressione di “universalismo”, prevede che uno stato non possa regolare i flussi in entrata di popolazioni. Immagino che non si possa giungere a qualificare tale Dichiarazione come “razzista”!

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