Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Gennaio, 2018

L’uso del termine razza non implica razzismo; l’ibridazione delle razze non è necessariamente un obiettivo da condividere

di il 19 Gennaio 2018 in comunità, etica pubblica, migrazioni con 3 Commenti

In questi giorni vi sono state molte reazioni di scandalo per l’uso, in una trasmissione radiofonica, della parola “razza” da parte del candidato della Lega per la Presidenza della Regione Lombardia. L’accusa è di razzismo, avendo egli espresso il timore che un’immigrazione incontrollata, senza limitazioni, possa portare la “razza bianca” a diventare minoranza in Europa.
Al di là della fondatezza dell’affermazione (essa dipende dall’orizzonte temporale che si assume e dall’andamento delle economie e delle demografie), le reazioni, anche al netto delle strumentalizzazioni tipiche di un periodo di campagna elettorale, confermano una difficoltà italiana (e non solo, anche tedesca) ad usare il termine “razza”, certamente dovuta alla criminale persecuzione su base razziale, specie anti-ebraica, realizzata dal nazismo e che ha trovato parziale rispondenza anche nell’Italia dell’ultimo periodo fascista.
Nelle indagini sociologiche e nel linguaggio sociologico il concetto di razza è usato normalmente. Nel mondo anglosassone e nordamericano il termine “race relations” (relazioni razziali) designa anche una disciplina universitaria di insegnamento, oltre che sezioni di associazioni scientifiche di scienze sociali. L’uso del termine ”razza” non implica l’essere razzisti, quindi. Lo è chi su base razziale stabilisce diversità di stato giuridico, come è avvenuto nel XX secolo in Sud Africa o negli stessi Stati Uniti, o , in senso più lato, non riconosce a tutti gli uomini, indipendentemente dalla razza o dal colore della pelle, la medesima dignità.
Che l’uso del termine razza da parte di un politico contraddica il “politicamente corretto” in Italia non significa che le differenze razziali non siano di fatto tema oggetto di attenzione anche da parte di coloro che, anziché dirsi preoccupati per la crescente quota di non bianchi, si dicono a favore della “ibridazione”, sostenuta in questi giorni anche da autorevoli ecclesiastici, che altro non è che il risultato di riproduzione umana derivante da genitori di razza diversa. Parlare di ibridazione presuppone che ci siano uomini e donne diversi per razza che procreano insieme.
C’è poi chi considera razzista chi usa il termine razza perché in realtà biologicamente si constatano “continua” di caratteri tra le cosiddette “razze”, per cui le “razze” biologicamente non esisterebbero. Lo stesso colore della pelle, il carattere più evidente della differenziazione razziale, mostra una grande gradualità di sfumature, e non solo nei casi di “ibridazione”.
Nessun motivo per dubitare delle ricerche scientifiche in campo biologico-antropologico, ma, come dicono due autorevoli padri della sociologia, come Thomas e Znaniecki, anche se la “definizione di una situazione” fosse non corrispondente alla realtà, essa ha conseguenze reali, e l’esistenza di differenti razze umane fa parte in tutta l’umanità della “definizione della situazione”. Che i confini tra razze non siano netti non smentisce, peraltro, il fatto che tra bianchi, neri, gialli e rossi (per usare termini di uso comune) vi siano differenze riconoscibili. E da quando mondo è mondo è altresì noto che in generale i simili amano stare con i propri simili e tra i criteri di somiglianza vi sono lingua, costume, tradizioni, religione, etnia o nazione, status socio-economico e anche colore della pelle o conformazione somatica (dai piccoli pigmei e ottentotti ai glabri gialli, ai robusti mongoli ai longilinei nord-europei e negri nilotici dell’Africa centro-orientale e così via.
C’è chi reputa insopportabile vivere con i propri simili perché ama avere diversità attorno a sé? Legittimo. Ma non imponga le sue preferenze a tutti. E’ sufficiente garantire a tutti uguale dignità, che non implica mescolanze e indifferenziazioni delle collettività che si organizzano per provvedere al loro comune futuro.

Immigrati: accoglienza incondizionata nuovo comandamento per i cattolici? Lettera ad Avvenire, quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana

di il 14 Gennaio 2018 in etica pubblica, migrazioni, religione con 2 Commenti

al Direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio
Avvenire, insieme a larga parte delle autorità ecclesiali, a cominciare da Papa Bergoglio, non cessa di richiamare i cristiani e le autorità civili all’accoglienza di coloro che lasciano la propria terra in cerca di un futuro migliore. Evidente il riferimento, tra gli altri, ai criteri, secondo il racconto evangelico, del giudizio di Dio l’ultimo giorno o al comandamento dell’amore del prossimo.

D’altro lato sempre le autorità ecclesiali hanno richiamato e richiamano i cristiani al dovere di contribuire al perseguimento del bene comune, anche tramite l’impegno politico. Risulta assai dubbio che il bene comune, sia nelle società di partenza che in quelle di arrivo dei migranti, consista nel non regolare i flussi di persone. E regolare implica anche stabilire dei filtri, quanto meno in entrata. E stabilire dei filtri in entrata significa non accogliere, respingere, accogliere per poi rimandare indietro. Inoltre il perseguire il bene comune richiede anche un impegno per lo sviluppo di tutti i popoli (“Populorum progressio” di Paolo VI) in modo che sia rispettato il diritto a non dover emigrare, diritto richiamato non spesso da Papa Bergoglio, ma che lo fu diffusamente da parte dei parroci e dei vescovi all’epoca dell’emigrazione italiana a cavallo tra XIX e XX secolo, che rimproveravano gli amministratori pubblici di non essere attivi nel creare le condizioni per evitare decisioni migratorie.

Infine vi è la questione del rispetto della legalità. Non vale per chi non rispetta le regole fissate per poter immigrare? Va da sè che nel caso di rifugiati l’unica legge è quella dell’obbligo di soccorso, ma non si ha nulla da dire verso il costume di rivendicare lo status di rifugiato in mancanza dei presupposti o quello di inviare i propri figli minori, alla soglia della maggiore età, per godere dello status di “minore non accompagnato”?

Sarebbe un aiuto ai laici cristiani, e non solo a quelli impegnati in politica, se le autorità ecclesiali e lo stesso Avvenire spiegassero come si possono comporre i diversi criteri di comportamento, tutti fondati sui principi cristiani. E’ stato fatto per adattare i principi di fratellanza universale all’economia di mercato (si veda ad es. l’annosa questione degli interessi sul capitale prestato). Possibile che non si possa fare per adattarli all’esigenza di governare i flussi di popolazione?

NB Lettera non pubblicata finora; è la seconda dopo che alla prima Tarquinio mi ha telefonato lamentandosi delle mie critiche. (Sono abbonato da molti anni ad Avvenire e non uso disturbare il giornale, ma la sua unilateralità sul tema immigrazione è ormai insopportabile)

Democrazia in corruzione: autoritarismo partitico (l’esempio del M5S) e responsabilità dei giornalisti

Al Direttore de l’Adige Pierangelo Giovanetti,
il suo editoriale su l’Adige di domenica 31 dicembre coglie forse la principale delle questioni attinenti al sistema politico italiano e dei paesi europei: la vitalità delle convinzioni democratiche. Non che manchi il sostegno verbale alla democrazia, ma con il termine “democrazia” si mascherano atteggiamenti che la minano in profondità.- Lei porta alcuni risultati di ricerche demoscopiche fatte negli USA. Nell’ultima indagine dell’European Values Study (che si svolge con periodicità novennale e che ha visto l’Università di Trento come responsabile per l’Italia, da ultimo assieme alla Cattolica di Milano) la situazione risultava un po’ meno preoccupante per quanto concerne il sostegno a governi militari o esplicitamente autoritari, ma non altrettanto si può dire per governi di esperti che non debbano fare i conti con i parlamenti. E’ la corruzione tecnocratica del sistema democratico, a parole sempre sostenuto, ma svuotato.
Lei vede come cause rilevanti di tale fenomeno la fragilità del sistema elettorale, che “non è in grado di trasformare in linea di governo un consenso frammentato” e l’interesse di sistemi autoritari orientati aa accrescere la loro influenza internazionale (in primo luogo la Russia di Putin) a destabilizzare l’Unione Europea, i suoi paesi e più in generale l’Occidente. Dubito che un sistema elettorale sia in grado di trasformare un consenso frammentato in governabilità, se vuole rimanere democratico, vale a dire in grado di rappresentare le opinioni dei cittadini. Il sistema “italicum” voluto dal PD voleva fare quanto Lei auspica, ma la Corte Costituzionale lo ha giudicato non democratico.
Accanto a disegni di leader di sistemi autoritari , dei quali Lei riferisce (cause esterne), vi sono peraltro altre cause interne da porre all’attenzione di chi ama la democrazia, e di queste proprio il sistema dei mezzi di comunicazione, giornali compresi, portano responsabilità. L’inneggiare alla “morte delle ideologie”, divenuto di moda dopo la caduta dei regimi comunisti dell’Este Europa, altro non fa che privare il sistema democratico di un retroterra culturale stabile su cui basare le scelte elettorali e di partito. Il sistema politico, il voto, si è fatto “liquido” per dirla alla Bauman (e si rimedia con l’autoritarismo e il leaderismo) Il sottolineare da decenni la governabilità a scapito della rappresentatività ha svuotato le assemblee elettive (dal Comune all’Unione Europea) a favore del potere di “capi” (dal sindaco ai capi di governo) che condiziona pesantemente il loro ruolo.
Ultimo esempio, l’attacco alla libertà dei parlamentari previsto nelle ultime decisioni statutarie e regolamentari del Movimento 5 Stelle. Il nominato leader Di Maio promette che farà dimettere dal Parlamento gli eletti che “cambiano casacca” (e non solo per gli eletti del M5S, per tutti gli eletti), e che darà multe salate a chi vota in dissenso. Il massimo del partitismo autoritario, sintomo della mancanza di coesione di partito o di movimento su base di condivisione di valori e di loro declinazione politica (ideologia). Molti “comunicatori” dei mezzi di comunicazione non hanno fatto altro che gettare fango sui parlamentari che hanno “cambiato gruppo”. La colpa era sempre dei parlamentari, che avrebbero tradito gli elettori. Non si sono mai chiesti se il cambiare gruppo o il votare in dissenso non sia da imputare, invece, allo stesso partito o gruppo parlamentare, che ha cambiato posizione politica e che può, esso, aver tradito i suoi elettori. Chi esce dal gruppo o chi vota in dissenso può, egli, averlo fatto per rispetto degli elettori. Ricordo la mia esperienza nel gruppo CDU, poi confluito nell’UDR, che la sera si esprime per non sostenere il nascente Governo d’Alema e la mattina dopo si trova nella maggioranza di D’Alema con il proprio capogruppo al Senato ministro dello stesso Governo. Il mio dissenso e poi la mia uscita dal gruppo UDR (che mi aveva emarginato, privandomi dalla sera alla mattina di ogni ruolo nelle Commissioni) erano un tradire gli elettori o lo era la decisione di un capo, notturna e non assunta democraticamente di cambiare collocazione politica?
Quanti commentatori sui giornali o sul radio-TV hanno stigmatizzato l’autoritarismo fortemente antidemocratico delle nuove regole del M5S? E’ giusto che un parlamentare stia ai deliberati del partito e del gruppo cui appartiene e con il quale è stato eletto (salvo casi di obiezione di coscienza), ma ciò vale solo se le decisioni di partito e di gruppo sono state assunte con metodo democratico. Ma quanti partiti e gruppi sono veramente democratici? Ma per lo più si tace, nonostante la violazione di una norma della Costituzione.
La democrazia è indubbiamente in pericolo e l’allarme lanciato dal suo editoriale è prezioso avvertimento, ma per trovare le cause del pericolo e rimuoverle serve anche un esame di coscienza dei comunicatori sociali, per vedere se al pericolo non abbiano contribuito loro stessi.

Il malcostume di dire “rappresentative della popolazione” indagini che non lo sono- l’esempio di un’indagine sulla religiosità pubblicata dal Trentino

Al Direttore del “Trentino” Alberto Faustini,
mi scuserà se già in altre occasioni mi sono sentito in dovere di ricorrere al sapere della mia professione di sociologo per ridimensionare quanto qualcuno riporta come dati “rappresentativi” dati che emergono da sondaggi che invece rappresentativi non sono. Mi pare un servizio ai lettori.
Sul Trentino di domenica 7 gennaio è dato ampio spazio ai risultati di una ricerca di Community Media Research (che non conosco) che dimostrerebbe l’affievolimento della dimensione del sacro, riportando dati sulle tre Venezie. A parte evidenti errori di impaginazione come nel caso della quota di cattolici nel Friuli-Venezia Giulia (scritta al 33,3%, invertendola con quella di coloro che dicono di non aver nessuna religione, 62,9%), ciò che preoccupa è che, grazie alla doverosa nota metodologica pubblicata in calce, mancano i minimi requisiti per qualificare i risultati come “rappresentativi” della popolazione italiana di maggiore età. La società Questlab, che ha curato la metodologia della ricerca, ha reso un cattivo servizio a Community Media Research. La questione fondamentale sta nel non aver assicurato nell’indagine la casualità nella scelta delle persone da contattare. E senza casualità non c’è modo di assicurare rappresentatività. Se su 13.413 contatti sono andati a buon fine 1.561, ossia poco più del 10%, è certo, che hanno operato fattori selettivi dei rispondenti veramente imponenti anche solo rispetto ai contattati. Ma neppure i contatti sono stati casuali, in quanto selezionati tra quelli che sono dotati di computer o altri metodi di contatto elettronico. Ma non tutti gli italiani sono dotati di computer e non tutti quelli dotati di computer sono in grado di interloquire su un questionario sottoposto. Basti pensare agli anziani, a coloro che hanno basso o bassissimo livello di istruzione o basso o bassissimo status occupazionale o a coloro che diffidano di intervistatori sconosciuti.
La doppia presenza di effetti selettivi non casuali delle persone contattate e tra esse di quelle intervistate, evidente a tutti, sarebbe stata rimediata, secondo la nota, dal “riproporzionamento” del campione intervistato in base ad alcuni caratteri (sesso, età, istruzione, professione, territorio), ma non basta dare più peso ad es, agli anziani intervistati per rimediare al fatto che quegli anziani intervistati non rappresentano l’insieme degli anziani. Il riproporzionamento dà l’illusione di ottenere dati affidabili, può contribuire ad ovviare ad alcune distorsioni, ma non rimedia affatto alle distorsioni provocate da effetti selettivi che hanno escluso dall’indagine determinate persone. Il dare più peso ai pochi anziani del campione, ad es., non elimina il fatto che tra gli anziani intervistati non vi siano coloro che non usano il computer per essere intervistati. Del tutta fasullo, quindi, il margine di errore del 2,5% dichiarato.
Si aggiunga un’altra considerazione: se su tutta Italia sono stati intervistate circa 1500 persone, quante sono quelle intervistate in Trentino-Alto Adige? Non basta presentare percentuali, se i valori assoluti di persone intervistate sono esigui. E il milione e poco più di abitanti della nostra regione non sono che un sessantesimo degli italiani, pari a circa 25 persone intervistate (magari solo ricostruite su una base ancora minore). Come si fa a presentare dati percentuali su basi assolute così esigue, senza nemmeno avvertire di ciò il lettore? E poi erano trentine o altoatesine, e queste italiane o del gruppo tedesco? Le varie realtà regionali differiscono molto in fatto di religiosità. Da oltre trent’anni seguo e curo le ricerche dell’European Values Study e pur avendo campioni nazionali anche più ampi, per presentare dati regionali di qualche senso, ho sempre provveduto ad aggregare tutte e tre le Tre Venezie.
A scusante di chi ha presentato i dati, posso solo dire che quanto fatto è quello che offre di norma il mercato delle agenzie che curano surveys, attente più a far soldi che a fornire dati attendibili, complice anche l’interesse dei committenti (non tutti) a credere di dire qualcosa sulla realtà a poco prezzo. Ma avendo Trento in casa un Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, potrebbe essere prudente avvalersi delle sue competenze scientifiche, quanto meno per avvertire e servire meglio i lettori.
NB Lettera non pubblicata finora dal “Trentino”

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