Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

Continua »

Archivio per Febbraio, 2018

Tariffe elettriche ingiustificate per costruzioni rurali d’uso stagionale

Già tempo fa sui giornali locali sono state registrate lamentele, anche da parte mia, circa il prezzo dell’energia elettrica, pur per tariffe dette di “maggior tutela”. Ma nulla è cambiato, né a livello nazionale né provinciale né a livello locale, almeno dove l’azienda elettrica è comunale o di consorzio tra più comuni, come a Primiero.
Mi è arrivata oggi la bolletta per l’energia elettrica in un maso sito a Primiero, allacciato alla rete ACSM per una potenza di 1,5KW. Per consumo zero, nell’ultimo bimestre del 2017 l’importo da pagare è di euri 40.78. Ho chiesto alla moglie, che tiene le bollette pagate, di farmi il calcolo di quanta energia è stata consumata nel 2017 e di quanto è il totale delle bollette. I KWh sono stati 295 e l’importo totale delle bollette euri 289,92, quasi tutti nel quarto bimestre (luglio ed agosto). Il costo per KWh è stato di quasi un euro a KWh (esattamente0,9828), una cifra assurda, e sarebbe tariffa di “maggiore tutela”! Solo meno di un quarto è il prezzo dell’energia: il resto sono gabelle varie (la maggiore definita misteriosamente “oneri di sistema”), fatte pagare anche a consumo zero, come è accaduto per 4 bimestri su sei.
Possibile che l’autonomia provinciale e l’autonomia aziendale ACSM non consenta di cambiare una situazione che non tiene conto della differenza tra una seconda casa e una costruzione rurale al servizio di un prato di montagna, il cui sfalcio è ritenuto meritevole di incentivazione per garantire la cura dell’ambiente e del paesaggio?
Si aggiunga che sulla stessa costruzione rurale viene fatta pagare l’imposta patrimoniale a tariffa elevata, come seconda casa (anche se non v’è nemmeno una strada comunale percorribile con mezzi) e soprattutto la tariffa per un servizio di raccolta rifiuti solidi urbani, del tutto mancante, per cui le pochissime immondizie prodotte nelle poche settimane d’uso sono portate a casa propria, per la quale il servizio è già abbondantemente pagato.
Non è tempo che chi ha responsabilità di ciò si muova?

Chiedere la modifica delle regole europee non significa essere contro l’Unione Europea

di il 1 Febbraio 2018 in COMMERCIO, Europa con Nessun commento

Lettera a Pierangelo Giovanetti, direttore de l’Adige:
il suo editoriale su l’ADIGE del 28 gennaio mette giustamente in guardia i lettori dal sottovalutare, nelle loro scelte elettorali del 4 marzo prossimo, il tema della costruzione di un’Europa unita, cui si avviano a dare nuovo impulso Francia e Germania. I veri sovranisti sarebbero coloro che operano per un’Europa più unita, non coloro che vogliono tornare a rafforzare le sovranità degli stati nazionali.
Così come scritto, il suo editoriale non nutre critiche verso l’Unione Europea come la conosciamo, ma è critico verso chi chiede una revisione del modo di operare dell’Unione, mettendo in primo piano malintesi interessi nazionali. Tra i programmi dei partiti per quanto se ne sa, solo quello dei Radicali di Emma Bonino adotta tale prospettiva, forse nella speranza di ripetere in Italia almeno una parte del successo avuto da Macron in Francia.
Vorrei portare qualche elemento per ulteriori valutazioni.
Il primo è la constatazione che i processi di integrazione di realtà economiche a diverso grado di vantaggio o svantaggio competitivo portano necessariamente vantaggi alle parti più efficaci nella competizione e svantaggi allee altre. Lo ha dimostrato in Italia il processo di unificazione dell’Italia e lo sta mostrando la politica di globalizzazione degli ultimi decenni. Senza adeguate compensazioni per le aree svantaggiate, più integrazione porta a più disuguaglianza. Ma queste compensazioni non vengono da sole, bisogna negoziarle da parte degli Stati nazionali deboli (e delle regioni deboli).
Il secondo concerne il ruolo delle istituzioni democratiche, deputate a rappresentare e perseguire il bene comune. Più si sale nella scala di organizzazione collettiva, più i meccanismi democratici si indeboliscono rispetto agli interessi delle élites finanziarie e della produzione ad alto valore aggiunto. Difficile sostenere che le lobbies che agiscono a livello globale favoriscano il bene comune globale o europeo. E i poteri politici dell’Unione Europea non sembrano immuni dall’influenza delle lobbies finanziarie.
Il terzo concerne il vincolo, che Lei richiama, dei limiti posti dal debito pubblico. Sensato richiamare l’Italia a rispettare le regole europee su deficit e debito, ma senza mutare tali regole si rischia il blocco delle economie dei paesi meno avvantaggiati. Il debito pubblico va usato come variabile strumentale nel governo della congiuntura economica, come ha insegnato Keynes, ma l’unico modo per poterlo fare è sottrarre agli interessi finanziari che controllano le banche centrali, nazionali ed europea , il potere di emissione di moneta. Non può farlo, con l’euro, la singola banca centrale nazionale, ma può farlo una Banca Centrale Europea che emette moneta al servizio delle politiche economiche a scala europea (che include anche politiche economiche nazionali con un certo grado di autonomia decisionale, secondo il principio di sussidiarietà). Senza una sovranità monetaria pubblica europea più integrazione condizionata da vincoli fissi al bilancio degli stati, significa condannare le economie meno avvantaggiate. Il debito pubblico esiste solo perché qualcuno emette moneta e la dà in cambio di titoli di debito. Per la spesa pubblica il debito non ha ragione di esistere; servono solo regole, se l’emittente moneta è pubblico.
Quarto elemento concerne il rispetto del principio di sussidiarietà, previsto nei trattati europei, ma di fatto soccombente rispetto ad altri principi “centralisti”. Più integrazione va bene solo per le attività di pubblico interesse che non possono essere svolte in modo efficace ed efficiente a livello nazionale o sub-nazionale. Si pensi ad es alla difesa e alla politica estera. Ma l’Unione Europea si è dedicata soprattutto ad attività che possono tranquillamente essere lasciate all’autonomia di stati, regioni, comuni, aziende e individui. Si può (e si deve) dire più integrazione, ma si può (e si deve) anche dire più autonomia, più rispetto delle singolarità culturali e politiche dei paesi e dei popoli che compongono l’Europa.
Chiedere, allora, che si riveda il funzionamento delle istituzioni europee (comprese quelle della Corte di Strasburgo, che talvolta agisce come istituzione che vuole regolare la morale, specie nel campo del diritto alla vita e della famiglia) non può essere solo oggetto di preoccupazione.

Reticenze nell’ammettere di aver indebitamente accreditato l’attendibilità di un’indagine sulla religiosità

Lettera al direttore del giornale Trentino Alberto Faustini,
leggo sul Trentino del 24 gennaio la lettera da me inviatale quasi una ventina di giorni fa in merito a quanto il giornale da Lei diretto riportava, il 7 gennaio, con grande rilievo, dei risultati di un’indagine sulla religiosità in Italia condotta da Community Media Research e la ringrazio. Ho dubitato che intendesse pubblicarla, date le critiche che avanzavo.
Avrei la colpa di non conoscere (o di non voler conoscere, lei sospetta) il prof. Marini, direttore dell’agenzia di ricerca. Sul sito web dell’agenzia che dirige apprendo che è un professore associato a Padova, con multiforme attività di ricerca e come giornalista. Sarà a causa della mia avanzata età che mi porta a non partecipare che occasionalmente a convegni di sociologia dove si conoscono i colleghi, ma non sono uso a valutare i risultati di indagini dal nome di chi le dirige.

Altra colpa che mi addebita, quella di non essermi informato sul metodo seguito dalla ricerca di Community Media Resarch, pubblicato sul sito della stessa. Le sarei grato se mi fornisce l’indirizzo web giusto; su quello che ho trovato, intitolato proprio all’agenzia, ho trovato solo articoli di giornale. Del resto, a merito del Trentino, avevo notato che le notizie sul metodo erano state pubblicate in calce all’articolo sui risultati, cosa non fatta frequentemente.

Lei specifica, nella nota di commento alla mia lettera, il significato delle sigle sulle tecniche usate per le interviste, tutte fatte via mezzi elettronici. Mi fa rilevare che la tecnica CATI (intervista telefonica) è usata per ovviare ai difetti degli altri metodi via computer. Peccato che non garantisca la non selettività. Pensi a quante telefonate riceviamo quasi quotidianamente da persone non conosciute; il più delle volte non si risponde, infastiditi. E quanti non sono negli elenchi, o hanno solo un portatile? E del resto che le persone intervistate siano state poco più di un decimo delle persone contattate è la riprova più evidente dell’operare di fattori selettivi. Se si aggiunge, poi, la necessità di ponderare i risultati per rispettare delle quote, riproporzionamento reso necessario dal non rispetto della stratificazione della popolazione secondo alcuni caratteri, non resta che insistere sulla assenza di garanzie probabilistiche sulle rappresentatività del campione e sul margine di errore. Mi sarei atteso che almeno il numero di intervistati nel Trentino -Alto Adige, meglio se distinto per italiani e tedeschi, lo avesse scritto nella sua nota. Non si vuole renderlo noto? Che sia più alto che in altre indagini nulla toglie alla mia obiezione. Se il numero è molto basso, come del tutto probabile in un campione nazionale, presentare solo percentuali serve a ingannare il lettore; l’affidabilità di quelle percentuali è propria bassissima.

Da ultimo rispondo alla sua curiosità: come mai mi sono interessato solo a questa ricerca di Community Media Research, dato che il Trentino ha pubblicato anche i risultati di altre indagini. La risposta è la più semplice: mi occupo di valori, anche in serie indagini internazionali, da oltre quarant’anni e sono stato responsabile per l’Italia dell’European Values Study e del World Values Survey. Il valore che, in base ai dati, più di altri ha conseguenze su altri orientamenti di valore è la religiosità. L’agenzia di ricerca che Lei segue si occupa per lo più di argomenti che sono assai periferici per i miei interessi scientifici. Ovvia, quindi, l’attenzione ai risultati di una ricerca sulla religiosità, tanto più che presenta risultati come “rappresentativi” con stretto margine di errore. Purtroppo, invece, l’affidabilità di quella ricerca non è statisticamente controllabile. Per i gruppi di ricerca scientifica seria, come quello citato dell’EVS, vi è un team di metodologi della ricerca tra i più competenti in Europa e per massimizzare l’attendibilità dei risultati ha fatto seguire procedure adeguate (le più adeguate possibile) non quelle che costano meno.

Mi dispiace che abbia preso un po’ di traverso i miei rilievi. Le assicuro che li ho fatti “in scienza e coscienza”.

Malcostume di pubblicare risultati di sondaggi vantandone l’attendibilità scientifica

Al direttore de l’Adige Pierangelo Giovanetti,
Lei nell’editoriale di domenica 21 gennaio giustamente denuncia la lamentevole situazione della comunità trentina nel garantirsi buona capacità politica a livello nazionale nella scelta delle candidature al Parlamento. Vorrei dirle che le cose non vanno diversamente quanto ad attendibilità delle notizie che vengono diffuse su giornali e riviste in merito a risultati di ricerche cosiddette “scientifiche” in campo sociologico.
Sui giornali, anche locali, non è raro imbattersi in ampi spazi dedicati alla presentazione di risultati di indagini sociologiche, in particolare quando questi possono colpire l’attenzione dei lettori o confermerebbero dinamiche sociali gradite a direttori ed editori.
Quasi mai i giornali si fanno carico di rendere noti i metodi di ricerca impiegati (campioni e tecniche di somministrazione di questionari o interviste) e quando lo fanno perché chi ha fatto l’indagine vanta attendibilità dei dati, spesso proprio la metodologia impiegata dimostra esattamente il contrario, ossia l’inattendibilità dei risultati. Se lo si fa rilevare al direttore, questi ringrazia, ma non pubblica i rilievi critici.
Ho avuto modo di curare, in posizione di responsabilità per l’Italia, più rilevazioni novennali dell’indagine sui valori dell’European Values Study e una rilevazione del World Values Survey e sono venuto a diretto contatto con il mondo delle varie “agenzie di ricerca” che si offrono di eseguire rilevazioni per conto di committenti. Alcune si rifiutano di farle seguendo criteri di affidabilità scientifica e altre accettano di farlo, ma con costi assai più elevati del normale. I preventivi sono così alti che anche committenti scientifici (università, enti di ricerca) rinunciano talora all’attendibilità dei risultati.
L’attendibilità (sempre probabilistica), di una survey, studiata dalla metodologia della ricerca e dalla statistica inferenziale, si basa su requisiti di base senza i quali nulla possono dire tali discipline: la principale è la casualità con la quale si scelgono le persone da intervistare (o altre entità delle quali si studiano i caratteri, come ad es. i comuni). Anche se si parte da un campione rappresentativo, le procedure possono portare ad alterarla in modo irrimediabile. In un’indagine nazionale cui un quotidiano ha recentemente dedicato attenzione, per es. su 13.413 contatti con persone, solo 1561 sono andati a buon fine, ossia poco più del 10%. Non si dice se le oltre tredicimila persone contattate siano state scelte con criteri di casualità (se ne può dubitare), ma anche lo fossero, i fattori selettivi intervenuti, per cui solo una persona su 10 è stata poi inclusa nel campione, toglie agli intervistati qualsiasi rappresentatività controllabile scientificamente.
Nella stessa indagine, come in moltissime curate da agenzie di ricerca, si usano, poi, sistemi di intervista tramite mezzi elettronici (telefono, posta elettronica, altri metodi con uso di computer e smartphone), che già da soli implicano una netta selezione degli intervistati, privilegiando i più istruiti, i più giovani, i più reperibili. Altro metodo quello di andare per strada o di casa in casa scegliendo persone che si incontrano o che sono reperibili e disposte a spendere parte del proprio tempo per l’intervista. Si stabiliscono quote di persone da intervistare per sesso, età, forse istruzione, ma ciò non elimina la selettività delle persone. Si ponderano i risultati in modo da rimediare ad es. alle basse quote intervistate di alcune categorie di persone (per sesso, età, istruzione, cittadinanza), ma anche ciò non rimedia al fatto che le minori quote relative ad alcune categorie non siano rappresentative. Non è che, ad es, raddoppiando o triplicando il peso dei pochi anziani intervistati si considerino gli anziani che non hanno computer o smartphone, ma essi possono avere opinioni e situazioni diverse dagli altri. Non rappresentativi, quindi, i risultati e ridicolo calcolare margini massimi probabilistici di errore sulla base della scienza statistica.
Altro errore nascosto e non rilevato è il riportare dati di un’indagine nazionale, sezionandola per regione o per provincia. Si presentano percentuali, senza dire che al di sotto di certe numerosità e in carenza di rappresentatività regionale o provinciale, quei dati non sono affidabili. La buona rappresentatività, fosse anche garantita a livello nazionale, non lo è a livello infra-nazionale, salvo che le numerosità e i criteri di campionamento e di rilevazione non fossero stati previsti con tale scopo, fatto di solito non previsto per indagini nazionali per gli alti costi. E per il Trentino Alto Adige i subcampioni sono così piccoli da non consentire attendibilità alcuna. Eppure si pubblicano e se ne vanta l’attendibilità.
In periodo di frequente uso di indagini sulle preferenze elettorali, un’avvertenza in proposito ai lettori mi sembra utile. La sensibilità di agenzie di rilevazione agli interessi di chi le paga è più che possibile, e. come si sa, chi le paga sa che nella vita sociale operano meccanismi di “profezia che si autoadempie”.

Top