Renzo GUBERT – Chi è?

Nato a Primiero l’11 agosto 1944, primo di dieci figli, padre primierotto (Turra di Pieve la nonna) e madre “fiamaza” (Delmarco di Castello il nonno e Paluselli di Panchià la nonna), famiglia di piccoli contadini in affitto, con il padre che, per necessità, lascia il lavoro agricolo a moglie e figli e fa il manovale stagionale nell’edilizia.

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Archivio per Dicembre, 2019

Congresso mondiale sulla famiglia a Verona; giuste le critiche di area cattolica di essere troppo di parte?

Penso giusto in una rubrica intitolata “Dialogo aperto”, non limitarsi a dire la propria, ma rispondere a chi esprime critiche a quanto si è detto, sperando che ciò sia la premessa per far crescere il dialogo nella comunità cristiana. Per questo Le scrivo in risposta a una lettera pubblicata su V.T. del 14 aprile a firma di Giuseppe Valentini (che non conosco). La mia lettera pubblicata la settimana precedente, critica nei confronti del Suo editoriale in merito al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona, gli ha lasciato “ l’amaro in bocca”. Vengo accusato, assieme all’autrice di un’altra lettera, di non “leggere la parola fondante della famiglia stessa: amore e accoglienza”. Non capisco il nesso con quanto avevo rilevato criticamente, ossia l’accusa da Lei mossa al Congresso di Verona di essere “di parte” e il rilievo prioritario che i cattolici dovrebbero dare al problema demografico anziché ai problemi dell’aborto e della natura della famiglia, unione stabile di uomo e donna aperta alla procreazione. Perché quanto da me rilevato sarebbe trascurare il fondamento della famiglia, ossia amore e accoglienza, o addirittura espressione di “supponenza se non odio”?

Il problema, per Valentini, starebbe nel non essere “accoglienti” verso le diversità. Certamente ho cercato e cerco di educare i miei cinque figli e le mie quattro figlie a vivere la loro sessualità in modo normale, vale a dire in accordo con il loro sesso genetico e biologico e mi dispiacerebbe se ciò non accadesse. Se ci fossero dei problemi (per ora grazie a Dio non ci sono), cercherei di aiutarli per superarli, come mi auguro che cultura, scienza e politica cerchino di aiutare a superarli coloro che ne soffrono. Lo stesso vale per le scelte di fare famiglia; cerco di far capire ai miei figli che i rapporti sessuali non sono un gioco erotico, ma vanno riservati alla coppia che ha assunto le sue responsabilità reciproche e verso i figli. Da cristiani i rapporti sessuali assumono in più un significato ancora più grande, quello di essere “sacramento di Grazia” l’uno per l’altro. E cerco di conseguenza che cultura e politica si pongano l’obiettivo di favorire la stabilità della famiglia, la fedeltà tra i coniugi, e cerco che la Chiesa non abbia timore a dire, come fece un vescovo di New York, Fulton Sheen, che è bene “essere in tre per sposarsi” (e il terzo è Dio) e che ha un grande valore la verginità prima del matrimonio, tra l’altro occasione per approfondire i rapporti di coppia anche sul piano spirituale e culturale, premessa per la stabilità futura. E per questo sarei sordo ai principi morali dell’accoglienza e dell’amore?

Ancor più strano il richiamo di tali principi che Valentini fa a proposito dell’aborto in caso di gravidanza indesiderata o di una gravidanza in presenza di una anomalia del nascituro. Mi sembrerebbe di poter dire che se si è animati da amore e accoglienza, per prima cosa si dovrebbero accogliere i figli già vivi nel grembo materno anche se indesiderati o se con delle anomalie. Forse che essi non sono esseri umani, e per di più inermi, in stato di debolezza? Dov’è la coerenza con i principi morali di amore e accoglienza se si legittima l’uccisione di un essere umano, perché scomodo? O almeno si ha “comprensione” per tale uccisione? Ci si scandalizza, da ipocriti, per l’evidenza di una statuina che riproduce il feto d’uomo a pochi mesi dal concepimento e si tace sul fatto che la realtà nei reparti di ginecologia, sostenuti con i denari di tutti, è assai peggiore, con feti d’uomo estratti fatti a pezzi e poi messi tra i “rifiuti speciali”. E si viene a dire che in fondo va bene perché si evitano aborti clandestini? Certo mi impegno per evitare che tali uccisioni “seriali” trovino il sostegno dei pubblici poteri e della cultura dominante. E mi permetto di criticare il mio settimanale diocesano quando scrive in un editoriale che il dire chiaramente queste cose è “di parte”, anche se l’accusa di essere di parte è dovuta, come credo, al fatto che l’iniziativa non era stata presa dalle organizzazioni ecclesiali ufficiali, come molte prese di posizione critiche e di presa di distanza lasciano intuire. “Io sono di Paolo e io sono di Apollo”: il quadro condannato da San Paolo si è ripetuto e la Chiesa Italiana ne è stata vittima. E il risultato è il disorientamento perfino su principi morali fondamentali. Bene!, Anzi male, malissimo.

scritto 14 aprile 2019

Che senso ha dare diritto di voto agli adolescenti?

Mi chiedo quali siano le ragioni per le quali i responsabili delle politiche nazionali, europee e globali hanno tributato enorme attenzione e testimoniato grande accondiscendenza alle manifestazioni che giovani teen-ager hanno tenuto in molti paesi, specie occidentali, per denunciare la necessità di cambiare modello di sviluppo, dando molta più importanza alle tematiche ambientali, con particolare attenzione ai cambiamenti climatici. In Italia è poi bastato che un ex-presidente del Consiglio del PD, ritiratosi dalla politica attiva, proponesse di dare il diritto di voto ai sedicenni per sentire un coro entusiasta di consensi, dalla sinistra alla destra, con rivendicazioni di primogeniture nella proposta.

Se in una famiglia i figli adolescenti fanno valutazioni critiche sulla conduzione familiare, di solito i genitori o i fratelli o sorelle maggiori cercano di esporre le ragioni per le quali si sono adottate certe condotte o fissato certe regole. Se gli adulti della famiglia seguissero entusiasti le critiche dei familiari adolescenti verrebbe da chiedersi se hanno quello che in trentino si direbbe un po’ di “scraiz”, ossia un po’ di intelligente buon senso nell’esercitare il loro ruolo educativo.

Sociologia, psicologia, antropologia culturale sono unanimi nel riconoscere che nella società moderna si diventa adulti molto più tardi di un tempo. I nostri genitori e molti di quelli di noi con i capelli grigi, a 14 anni (ma informalmente anche prima) andavano a lavorare, contribuendo alle spese della famiglia di origine e mettendo da parte risorse per la propria futura. Le ragazze preparavano la dote. Fatto il servizio militare si pensava a metter su famiglia, entrando nel mondo degli adulti. Ora l’istruzione obbligatoria, in varie forme, arriva ai 18 anni di età, percentuali alte proseguono gli studi e si arriva a superare i cinque lustri prima di affacciarsi al mondo del lavoro. Se ci sono difficoltà per il lavoro, si vive da disoccupati o precari per anni. Per farsi una famiglia c’è tempo, la sessualità è largamente gestita in forma ludica e provvisoria, senza assumersi la responsabilità verso il partner e verso figli. Troppo chiedere decisioni definitive e stabili. E’ di fatto un’adolescenza prolungata. Ebbene, non si capisce perché di fronte a un’età adulta che ritarda, anche psicologicamente, debba invece essere anticipata la responsabilità di determinare le scelte collettive, da sempre prerogativa dello status di adulto, che ha imparato ad assumersi almeno la responsabilità di un lavoro e di formarsi una famiglia. Dapprima la maggiore età era a 21 anni, poi si è portata a 18. Ed ora è difficile che si possa pensare che, dando il diritto di voto a 16 anni, non si debba riconoscere a 16 anni la maturità propria della maggiore età, con grandi conseguenze sociali.

Ritorna la domanda: per quali ragioni persone di ogni orientamento politico vogliono dare il diritto di decidere sul futuro della comunità locale, nazionale ed europea ad adolescenti che non hanno ancora dimostrato di sapersi assumere responsabilità di adulti?

La spinta è certamente venuta dalle manifestazioni ambientaliste guidate da una sedicenne del Nord Europa, molto partecipate. Si è scambiata la mobilitazione di teen-ager che ha le stesse caratteristiche di quella che avviene per una concerto all’aperto di un cantante alla moda per segnale di maturità politica. La comunicazione detta “social” (ma l’altra cos’è?) rende facile ritrovarsi per qualche happening. E’ bello fare qualcosa di inconsueto. Che molti autorevoli scienziati italiani (ma non solo) abbiano richiamato la prudenza nello spiegare le variazioni climatiche come effetto delle attività umane (senza considerare i cicli dell’attività solare) è per tali giovani irrilevante, eppure dicono che bisogna seguire gli scienziati!

Se non ricordo male, negli anni Sessanta i giovani pensavano ai 3M (mestiere, moglie, macchina) e ciò era giudicato un po’ troppo conformista e “materialista”. Oggi i seguaci della sedicenne nordica pensano a studiare senza sapere che mestiere faranno, rimandano a dopo i trent’anni il tentare di fare una famiglia, almeno provvisoria, ma non rinunciano alla macchina con i soldi di papà. E si adattano anche a una che usa petrolio, nonostante il denunciato “effetto serra”. Ma si credono non conformisti; a New York per l’ONU la loro portabandiera va in barca a vela (e il ritorno?). Possibile che tanti adulti non capiscano la portata di effimero che hanno le mode adolescenziali?

scritto 3 ottobre 2019

Utile una ricerca valutativa sull’uso dei fondi per la cooperazione internazionale

Sul Trentino dell’11 maggio è riportata una lunga intervista a una responsabile di un’associazione che opera per lo sviluppo, nel caso specifico illustrando le iniziative a favore di una zona periferica del Vietnam. L’annuncio di una riduzione dei fondi provinciali per la solidarietà internazionale, vista la loro non trascurabile entità, metterebbe in crisi progetti e possibilità di mantenere l’attuale numero di dipendenti.

Non si tratta che di una delle realtà associative operanti nel settore che ha espresso forti critiche circa il ventilato dimezzamento dei fondi provinciali destinati alla solidarietà internazionali. Senza pretendere di avere in ogni caso ragione, sulla base di molte esperienze a stretto contatto con iniziative di sviluppo e di aiuto internazionale, in America Latina (Brasile e Argentina) e in Africa (Uganda), ho maturato alcune convinzioni.

La prima è che la solidarietà anche in termini economici con popolazioni povere non è compito solo delle agenzie internazionali, governative e non, ma può e deve investire tutti i livlli nei quali si struttura la vita collettiva, dai più piccoli, come le comunità locali, ai più grandi. A fatica si è maturata una sensibilità al riguardo in Italia e anche in Trentino e si è deciso di sacrificare una parte delle proprie risorse per aiutare chi è in condizioni di indigenza, tanto più se in qualche caso (vedi il Chaco, in Argentina) erano in condizioni difficili discendenti di trentini. Saggiamente non ci si è limitati da dare il pesce a chi aveva fame (e carestie ce ne sono sempre), ma si è puntato per lo più a insegnare a pescare, fornendo la canna, l’amo e l’esca. Più rischiose iniziative per costruire rapporti di pace tra popolazioni in guerra, come accaduto ad es. nella ex Jugoslavia. Sempre difficile misurarne l’efficacia e decidere quando il compito si può dire finito, ma comunque si tratta di “costruire la pace”, compito importante quanto aiutare lo sviluppo.

La seconda convinzione è che, dovendo dare all’impiego di risorse una scala di priorità, questa, accanto alla solidarietà con chi ha origini nella nostra terra, deve tener conto della condizione di bisogno non solo della popolazione che si intende aiutare, ma anche della società più ampia, dello Stato, nella quale tale popolazione è inserita. Se una nazione dal punto di vista economico ha raggiunto sufficienti livelli di benessere, il dovere di rimediare alle indigenze interne spetta innanzitutto ad essa. Tanto più se al suo interno vi sono forti disuguaglianze, per cui le condizioni di indigenza sono correlate all’esistenza di pochi ricchi cui importa poco correggere la situazione a favore dei più poveri. In Brasile e in Argentina, ad es., vi sono ceti molto ricchi e popolazioni molto povere. Se pensiamo noi a risolvere i loro problemi di povertà (o di contribuire a risolverli), esoneriamo il Paese a pensarvi. Prioritario è, a mio avviso, aiutare popolazioni povere in Stati poveri, in difficoltà ad assicurare a tutti livelli dignitosi di vita. Per tornare alle mie esperienze dirette, gli aiuti alla regione del Karamoja, in Uganda, dovrebbero essere prioritari rispetto a quelli in paesi in forte crescita o con livelli più alti di reddito, come il Brasile o il Vietnam.

Se posso dare un consiglio, primo compito della Provincia e della Regione in tema di cooperazione internazionale dovrebbe essere una verifica del rispetto di criteri di priorità, da definire con il concorso anche di chi sul campo opera e da adeguate ricerche valutative dei risultati. Se il taglio dei fondi è un modo di manifestare una qualche insoddisfazione circa le azioni di aiuto e di sviluppo condotte e in atto, assai meglio è una loro valutazione, combinata con un insieme di criteri di priorità. I sacrifici che anche i trentini sono chiamati a fare per la solidarietà tra popolazioni anche lontane sarebbero meglio capiti.

scritto 11 maggio 2019

Trattare diversamente le “seconde case” degli originari da quelle dei turisti

di il 31 Dicembre 2019 in Urbanistica con Nessun commento

E’ dei giorni scorsi l’emergere sui giornali locali della proposta di rivedere o di abolire la “legge Gilmozzi” sulle seconde case. Da un lato alcuni sindaci e albergatori preoccupati e dall’altra gli imprenditori del settore edile e del mercato immobiliare favorevoli.

Negli anni della mia attività politico-amministrativa nel Comprensorio di Primiero, in qualità di assessore all’Urbanistica portai all’elaborazione e poi all’approvazione, avvenuta all’unanimità dell’Assemblea, del Piano Urbanistico Comprensoriale, fondato su due “novità” che allora non erano scontate. La prima: no ad aree per costruire seconde case e sì ad aree per l’edilizia sociale e agevolata e ad aree edificabili di proprietà di residenti che intendevano costruire la prima casa per la propria famiglia o per i figli già adulti. La seconda: sì alla ristrutturazione di baite a scopo di residenza temporanea anche di tipo turistico (in precedenza era consentita solo per uso agricolo, pur con abusi e aggiramenti diffusi), purché fosse coltivato il prato di pertinenza, riservando una parte dei vecchi fienili per il deposito del fieno.

Gli Uffici provinciali competenti fecero qualche resistenza contro le due novità, ma poi le approvarono anche tecnicamente e il PUC, approvato dalla Giunta, divenne esecutivo. Poi venne la buriana sui comprensori, la politica decise di ridare ai Comuni la competenza urbanistica (salvo linee generali di indirizzo) e questi allargarono un po’ le maglie sui masi, mentre la legge Gilmozzi introdusse per i comuni turistici dei vincoli sulla nuova edificazione nonché limiti alla modificazione della destinazione d’uso delle baite.

Ora viene lamentata l’esistenza di case nuove invendute a causa, si pensa, del vincolo a prima casa. Si tratterebbe di fare allora una deroga, non si capisce ancora se temporanea, tipo “sanatoria” o se a regime. Si presuppone che ci sia una domanda non soddisfatta di seconde case, che potrebbe trovare soddisfazione nelle prime case rimaste invendute (da quando? e per quanto tempo?). Condivido l’idea che l’aumento di seconde case in comuni ad alta intensità di turismo sia una strategia sbagliata. Come già detto in altre occasioni, l’offerta di seconde case è utile alla comunità solo per avviare l’attività turistica in aree a bassa o nulla attività turistica; per esse non hanno senso limitazioni, anzi, avrebbero senso incentivazioni, esenzioni. Lo stesso dicasi dove si registrano abbandoni e degrado di masi di montagna. Laddove l’attività turistica è avviata e sviluppata, invece, alla comunità serve che essa generi posti di lavoro e l’indotto occupazionale dell’attività alberghiera è molto maggiore di quella che dà la seconda casa, il cui effetto occupazionale si esaurisce quasi del tutto con la costruzione.

Quando a governare la provincia c’era la DC, si avviarono programmi di finanziamento della ristrutturazione dei centri storici rurali (oltre che urbani). Non v’è chi non veda che vi sono ancora grandi spazi per interventi di risanamento, anche in centri turistici. Lo stessa dicasi per i masi di montagna. Nel programma di coalizione dell’attuale maggioranza provinciale il Centro Popolare propose che nelle politiche del territorio, dalla tassazione alle normative edilizie e urbanistiche, fosse introdotta una categoria di persone intermedia fra il residente e il non residente, quella dell’”originario”, ossia di quello la cui famiglia di origine (almeno per un paio di generazioni?), era residente, ma che poi ha lasciato il comune per andare a risiedere altrove, per lo più per lavoro. Tale categoria ha trovato riconoscimento da poco anche nella legislazione italiana su usi civici e proprietà collettive, ma vige da sempre in Svizzera. Gli “originari” hanno la prima casa altrove, ma il mantenere un legame con la terra di origine, costruendo o acquisendo o ristrutturando o semplicemente continuando ad usare la casa che fu dei genitori e dei nonni, ha certo un valore diverso, per la comunità, del turista estraneo alla comunità che desidera avere una casa per i fine-settimana e per le ferie. Vengo da una famiglia numerosa e non tutti i fratelli e le sorelle hanno potuto restare a Primiero, ma mi pare incongruo che vengano considerati dalle normative come estranei con seconda casa. Se si riconoscesse una situazione intermedia di originario, si aprirebbe uno spazio di attività edilizia e di mercato aggiuntiva, che certo non susciterebbe le preoccupazioni di veder usato in modo poco produttivo e con effetti positivi solo a breve termine il territorio, già scarso e già in parte compromesso da un modello di turismo poco vantaggioso per la comunità.

scritto 30 aprile 2019

Giusta la proposta di don Marcello Farina di fare sciopero della messa per protesta contro scelte relative a immigrazione?

di il 31 Dicembre 2019 in religione con Nessun commento

Non mi sarei mai atteso da un sacerdote, don Marcello Farina, la proposta nel corso di un’omelia di non celebrare la messa la domenica a sostegno di un’opinione politica concernente le politiche di affronto del problema immigrazione. Giustamente il vescovo ha ricordato come la messa serva per vivere più coerentemente il vangelo. Usarla come oggetto di uno sciopero o di una “serrata” dei preti mi sembra uno svilimento, una strumentalizzazione del proprio ministero di celebrazione dell’eucarestia.

Non ho mai sentito don Farina proporre nulla di simile per leggi che consentono e finanziano con denaro pubblico l’uccisione di essere umani nel grembo materno perché indesiderati, né mai egli si è distinto in dure condanne al riguardo. Lo fa su un tema nel quale le soggettive valutazioni politiche di opportunità hanno un peso assai maggiore di quello in merito alla tutela della vita umana. Di fronte a un cambiamento nelle politiche verso gli immigrati clandestini cui non è riconosciuto il diritto di asilo si può dissentire. Si poteva suggerire una fase di transizione che tenga conto delle aspettative delle persone consolidate da scelte politiche precedenti. Ma si è di fronte a una questione che non è di vita o di morte. Manca il senso della misura. Vi è un’intrusione clericale in un ambito di responsabilità dei laici. Vi è una strumentalizzazione clericale di un sacramento. Un prete ha molti strumenti per dare un insegnamento di morale. Si è ceduto al desiderio di clamore mediatico, facendo perdere autorevolezza all’insegnamento morale.

scritto 4 marzo 2019

Un monumento a Trento a Mauro Rostagno?

di il 31 Dicembre 2019 in Persone con Nessun commento

Sull’edizione del Trentino del 12 marzo scorso è pubblicato un articolo a firma S.A.M. Che sponsorizza la donazione e di fondi per erigere un monumento a Mauro Rostagno. A parte il fatto che se è vero, come afferma l’articolista, che in risposta all’appello di alcuni amici di Rostagno per tali donazioni fluisce denaro da tutta Italia, non si capisce perché chiedano, anche tramite il Trentino, altri fondi da parte dei trentini (ma, si sa, di denaro ne serve tanto se per una putrella di ferro che regge un masso di porfido non sono sufficienti i 33.000 euri già raccolti), ciò che colpisce è il panegirico di Rostagno per il suo ruolo avuto a Trento.

So solo quanto riportato dai giornali per il suo ruolo avuto in Sicilia, ricordato anche dal siciliano Presidente della Repubblica Mattarella per il suo impegno contro la mafia. Ma conosco benissimo il suo ruolo avuto a Trento. Per l’articolista, Rostagno si sarebbe impegnato per la difesa degli oppressi e degli sfruttati. Se lo fece, lo fece nel modo nel quale svolsero tale impegno gli estremisti rivoluzionari dell’ideologia marxista, un modo rifiutato anni più tardi dallo stesso Rostagno a Trento, che affermò che per fortuna i progetti rivoluzionari perseguiti da lui e da una parte del movimento studentesco non avevano avuto successo.

Meraviglia ancora che l’articolista voglia ricordare Rostagno come “uno dei principali ideatori della riforma universitaria”. Di quale riforma universitaria si tratta? Rostagno accusava come “retrogradi” i riformisti. Serviva la rivoluzione sociale, che comprende anche l’uso della “violenza rivoluzionaria”. Per tale rivoluzione andò con amici a Milano, prima di terminare gli studi. E a questa doveva accompagnarsi la rivoluzione dei costumi, le esperienze delle “comuni” familiari. E più tardi fu in India nel movimento degli “arancioni”. L’articolista menziona anche Rostagno come ideatore dell’esperienza dell’università “critica”, allora detta anche “negativa”. Mi risulta che i padri di tale idea fossero altri e comunque coloro che la sperimentarono a Trento portano sulla coscienza un’intera generazione di laureati in sociologia che pagarono con la dequalificazione professionale l’esasperazione di un approccio alla scienza sociale che non può essere “alternativo”, come ideato dai suoi promotori, ma può giustamente portare solo a un’attenzione critica al sapere “positivo”, come con decenni di lavoro di professori e studenti seri si è riusciti a fare poi anche a Trento.

Non so chi sia l’articolista, del quale sono rese note solo delle iniziali; di certo non ha vissuto a Trento nel periodo di Rostagno o se lo ha fatto si è identificato con qualcuno dei suoi amici che ora vogliono nascondere i fallimenti con una santificazione di colui che dei fallimenti è stato guida carismatica. Bene, se poi, in Sicilia, Rostagno ha cambiato idee e pratiche. Ma non vedo perché non si debba dire la verità sul suo periodo trentino.

scritto 12 marzo 2019

La figura di Mauro Rostagno: risposta a Bruno Ballardini

di il 31 Dicembre 2019 in Persone, università con Nessun commento

Sul Trentino del 19 marzo è pubblicata una lettera di Bruno Ballardini, che, da non credente, ricordando quanto sentito frequentando la dottrina cristiana dei pomeriggi della domenica (quando non c’erano, per i più, mezzi di trasporto a motore per spostarsi e TV da vedere), ossia la comprensione per la fragilità umana e per la possibilità del riscatto come esemplificato dalla parabola del figliol prodigo, mi rimprovera di incoerenza per il mio giudizio negativo su Rostagno.

Ringrazio Bruno Ballardini per le parole gentili e per il tentativo di “correzione fraterna” nei miei confronti, altra pratica che si insegnava nei corsi di “dottrina”. Volevo rassicurarlo che non vi è nulla di personale nel mio giudizio su Rostagno, che, anzi in un paio di occasioni , in quanto ero da lui visto come “vero proletario” ( e non sbagliava), mi ha tutelato da reazioni aggressive di suoi seguaci. Si tratta solo di non lasciare passare, senza reazioni, il tentativo di suoi seguaci di “santificazione” di Rostagno, almeno per quanto riguarda il periodo trentino. Si può anche divergere su cosa sia la “santità”, specie se essa è vista da persone con visioni dell’uomo e del mondo molto diverse. Ciò che non mi sembra ammissibile è costruire il “mito del santo” sulla base di affermazioni non corrispondenti in alcun modo alla realtà, contraddette anche da esplicite affermazione del “santo” per continuare a far pressioni su pubbliche autorità e sui cittadini per donazioni per far erigere un monumento. Lo possono fare i seguaci, ma mi sembrava troppo che lo facesse anche il giornale che lei da pochissimo dirige.

Ballardini ricorda male un episodio che è di memoria comune tra gli studenti degli anni del Rostagno studente a Trento. Rostagno non indisse un’assemblea per evitare un esame di matematica, ma, essendo di sera senza più luce naturale, fece far saltare l’illuminazione dell’intero palazzo di via Verdi per poter senza più controlli passare gli esercizi dell’esame di matematica a chi poteva poi riconsegnarli a lui e agli amici suoi (che di matematica non ne sapevano tanto) già svolti. E andò proprio così. L’autorità accademica non ebbe il coraggio di far annullare la prova scritta di matematica (allora obbligatoria) e così Rostagno con i suoi amici superarono l’ostacolo. Certo poca cosa per coloro che dicevano inutile studiare dato che con l’autunno del 1969, con la saldatura tra rivoluzione studentesca e rivoluzione operaia, sarebbe arrivato in Italia un regime rivoluzionario dove a governare non sarebbero più stati i “competenti” in scienze borghesi e reazionarie, ma i rivoluzionari. Poca cosa rispetto a ciò che avrebbe colpito l’Italia col terrorismo, che traeva ispirazione dalle idee rivoluzionarie delle quali Rostagno di faceva portatore e da reazioni violente di matrice opposta. Poca cosa, ripeto, ma che qualcosa dice sulla “santità” a Trento. Basta la conversione della lotta alla mafia, pagata, come certo o assai probabile, con la vita, perché Trento debba vantare il Rostagno “trentino”? Una targa all’Università lo ricorda in modo equilibrato. Tanto non è stato concesso ai fondatori della sociologia a Trento, rei di non essere stati “rivoluzionari”. Si è fatta eccezione per Kessler e per Andreatta, nessuno sociologo, ma ricordati per il ruolo politico. Dobbiamo pagare un altri tributo al “mito del 68” cui la sinistra, compresa quella del Comune di Trento, continua a sentirsi legata?

scritto 19 marzo 2019

Proteste professori per sospensione corsi di ideologia “gender”: giustificate?

Il Trentino di giovedì scorso 4 aprile ritorna sulla presa di posizione di alcuni colleghi professori dell’Università di Trento contro la decisione della Provincia Autonoma di Trento di sospendere i corsi integrativi sul “genere” e contro il convegno che in merito ha più recentemente organizzato la stessa Provincia. Si aggiungono ora anche professori di liceo. Il suo giornale parla di “rivolta dei professori contro la giunta”.

Non occorre molto per capire le dinamiche che si sono messe in atto. Ci sono stati anni nei quali una firma su un documento critico non si negava a nessuno, e questa volta era in gioco la figura di un pro-rettore, che un suo collega invano ha cercato di far ragionare anche sul “Trentino”. Un pro-rettore di quelli tosti e bene introdotti negli ambienti di sinistra se gli (le) è stata offerta la candidatura per l’elezione suppletiva alla Camera per il collegio di Trento.

Non ho mai visto nessuno dei colleghi professori protestare per i convegni a tesi organizzati dalla Provincia quando a governarla c’era la sinistra, a cominciare dal Festival del’Economia, spesso travalicato in festival della politica di sinistra. Alcuni prendevano la loro parte di gloria, grati. Ora si accusa la Giunta di riportare ad “epoche buie”, di dare “segnali e atteggiamenti di chiara impronta autoritaria e fascista”. Ridicolo. Solo perché chi ha la responsabilità della scuola pubblica di fronte ai genitori e alla comunità ha inteso evitare che, in nome della lotta al pregiudizio, si considerasse doveroso educare tutti i bambini e i giovani all’”ideologia del gender” (mascherata) e perché ha voluto organizzare un convegno che chiamasse esperti che di questa ideologia non fossero espressione, dato che a proporre questa da anni c’erano coloro che sostenevano i corsi integrativi. Ma dove sta scritto che una comunità non abbia la libertà di sentire una voce diversa, dopo che per anni ne ha sentito altre e ha dato ad esse spazio? Si ripete l’intolleranza dimostrata dalla sinistra nei confronti del recente Congresso Mondiale delle Famiglie a Verona. Nessuno osi prendere posizioni contrarie all’ideologia dominante e se lo fa, deve dare spazio anche ad esponenti dell’ideologia dominante, altrimenti è un fascista e autoritario.

Ma poco convincente anche la “rivolta dei professori” per l’intervento delle forze dell’ordine a garantire un ordinato svolgimento del convegno. A negare ai partecipanti e ai relatori la libertà di dire la propria erano i “contestatori” e la magistratura dirà se per farlo hanno sfondato una porta secondaria. Quante volte mi sono sentito negare il permesso di entrare per il rispetto di norme sulla sicurezza, data la capienza di una sala. Chi ama la libertà e lo stato di diritto non vuole imporsi con la forza e se vuole protestare per la carenza di posti, lo può fare “democraticamente”, non con lo stile da “fascismo (autoritarismo) rosso” cui contestatori di sinistra ci hanno abituato per decenni a partire dal 1968.

Spiace vedere bravissimi colleghi professori allinearsi a proteste di chiaro sapore politico, mascherate da lotta al fascismo e all’autoritarismo. Forse un po’ meno di conformismo alla cultura dominante su temi eticamente sensibili non avrebbe guastato per degli intellettuali. Caro Direttore, conoscendo alcuni di essi stento a credere che siano dei “rivoltosi”; semplicemente molti o non hanno approfondito la questione e non se la sono sentita di dire di no a un pro-rettore (pro-rettrice) su un tema che profuma di “progressismo”. Non sia mai! L’università è per il progresso, anche a costo di mettere tra parentesi lo spirito critico.

scritto 4 aprile 2019

In memoria di Riccarda Rossaro

di il 31 Dicembre 2019 in COMMERCIO con Nessun commento

Il 4 novembre ho partecipato al funerale di Riccarda Rossaro, di Pedersano, mia coetanea. Come sempre accade nelle piccole comunità rurali, la chiesa era piena di gente e oltre al giovane parroco celebravano anche missionari comboniani, di uno dei quali, ormai defunto, Riccarda era nipote. Tra la gente anche rappresentanti dell’Associazione italo-tedesca di sociologia (tra i quali il prof. Lauro Struffi), associazione che ha sede presso l’Università di Trento e che da molti anni edita la rivista bilingue “Annali di Sociologia – Soziologisches Jahrbuch”, fondata dal prof. Franco Demarchi e da alcuni anni da me diretta, in collaborazione con altri docenti italiani e tedeschi e con i co-direttori prof. Arnold Zingerle (Bayreuth) e Raimondo Strassoldo (Udine).

Al ricordo in chiesa da parte di uno dei padri comboniani vorrei aggiungere quello mio, a nome della Direzione, del Comitato Scientifico e della Redazione della Rivista, dei quali Riccarda Rossaro è stata Segretaria, oltre che Segretaria dell’Associazione presieduta da anni dal prof. Antonio Scaglia, rappresentato alle esequie dalla consorte, dati suoi impegni inderogabili. La Rossaro è stata l’anima dell’iniziativa di dialogo tra sociologia italiana e sociologia di area culturale tedesca, dapprima in stretta collaborazione con il prof. Demarchi, aiutandolo soprattutto nella parte amministrativa (con essa Demarchi era poco familiare) e poi con me e con il prof. Scaglia, mantenendo i contatti con i sociologi italiani e tedeschi autori degli articoli, con i traduttori, con coloro che facevano la supervisione e con chi contribuiva da linguista a spiegare la più opportuna traduzione italo-tedesca dei concetti.
La sua non fu solo una collaborazione tecnica. Quando per il venir meno del sostegno economico di socio fondatore dell’Istituto Trentino di Cultura (scaricando con ciò sull’Associazione i costi di un ricercatore a tempo pieno assunto inizialmente con i fondi dell’ITC), l’attività dell’Associazione subì un forte rallentamento nella pubblicazione della rivista, ai contributi economici personali del prof. Demarchi, Riccarda aggiunse di sua iniziativa la sospensione per molti mesi del suo stipendio di impiegata, consentendo all’Associazione di superare la crisi, anche con l’aiuto, poi, della Regione Autonoma Trentino – Alto Adige/Suedtirol, della Provincia di Trento e della stessa Università, altri soci fondatori dell’Associazione.

Anche pensionata, Riccarda Rossaro non fece mancare il suo aiuto al segretario che l’ha sostituita, il dott. Manuel Beozzo, sociologo con doppia laurea a Trento e a Eichstaett (Baviera) e da poco ricercatore presso quest’ultima università. Non manca l’attenzione dell’opinione pubblica verso il tema del lavoro. Riccarda Rossaro è stata testimone di un rapporto con il lavoro di pieno coinvolgimento, di piena responsabilizzazione, esemplare. E a ciò ha aggiunto un’impegnativa assistenza in casa alla madre a lungo ammalata. Per questo merita un ricordo particolare in un ambito più largo di quello dei parenti e dei membri della piccola comunità locale dove viveva.

scritto 5 novembre 2019

In memoria di mons. Silvio Gilli

di il 31 Dicembre 2019 in COMMERCIO, Persone con Nessun commento

L’Adige del 30 marzo pubblica un ricordo di don Silvio Gilli scritto da Giampaolo Andreatta: episodi di vita che arricchiscono la descrizione di un prete un po’ “speciale”, sia per lo stile di comportamento sia per la missione che ha svolto in Vaticano. Aggiungo anch’io un episodio personale: neo-eletto alla Camera dei Deputati nel 1994, un po’ spaesato quanto a sistemazione alloggiativa, telefonai a don Silvio, in Vaticano, se poteva indicarmi qualche sistemazione un qualche struttura ricettiva religiosa, meno cara e meno soggetta all’incertezza delle prenotazioni di un albergo. In un attimo telefonò e mi trovò la camera presso un convento di suore, alle spalle del Vaticano. Purtroppo l’ora del rientro serale non era spesso compatibile con gli impegni e così, dopo poche settimane, scelsi di andare in albergo presso i Fori Imperiali, gestito dai frati di padre Massimiliano Kolbe, finché poi non trovai una sistemazione stabile in una camera d’affitto. Sento ancora riconoscenza per la cortesia usatami da don Silvio, che ogni tanto rivedevo a Trento per la visita di un collega sociologo che lo aveva conosciuto in uno dei viaggi in Cina organizzati da don Demarchi.

Ai funerali a Gardolo, oltre ai tantissimi preti con il vescovo emerito e tanta folla, il vescovo in carica mons. Tisi ha delineato la figura di don Gilli in modo appassionato (era stato, ha detto, suo confessore), insistendo sulla sua mitezza e sul grande amore per la Chiesa. Una sua nipote lo ha ricordato con grande affetto: sapeva “tenere insieme” la famiglia. Un esponente della San Vincenzo e un altro dell’Apostolato della Preghiera ne hanno ricordato le attività, carità e preghiera. Nessuno ha fatto cenno al suo impegno come assistente ecclesiastico dell’Associazione Famiglie Numerose, trasformata poi in Associazione Trentina della Famiglia, rette da una figura di spicco del Trentino, il prof. Sisto Plotegheri (del quale sono stato successore), aiutato da soci sostenitori, anche finanziariamente, come Tullio Odorizzi.

Sono stati gli anni nei quali l’Associazione era tra i promotori in Italia del referendum sulla legge che introduceva in Italia il divorzio e di quello, successivo, sulla legge che legalizzava l’aborto. Seguirono convegni europei in materia, uno dei quali tenuto, guarda caso, a Verona, e l’Associazione presieduta da Plotegheri era co-organizzatrice. Ebbene, don Gilli non aveva remore nel sostenere tali iniziative e, a differenza della chiesa trentina di oggi, che critica il Congresso Mondiale sulle Famiglie di Verona perché “odora” politicamente di destra, poco gli importava che a favore della stabilità della famiglia e per la difesa della vita vi fossero, in entrambe lo occasioni, oltre alla Democrazia Cristiana, un partito di destra (quella vera e storica): ciò che contava erano i contenuti, era la sostanza delle posizioni sostenute. E non taceva per la paura di “andare contro” su temi allora assai divisivi. Altra tempra di cristiano e di prete, che sapeva unire mitezza, preghiera e impegno per principi fondamentali in merito a vita e famiglia.

Avrei desiderato ricordare ciò al funerale di don Silvio, ma non sarebbe stato certamente gradito. Mi affido a l’Adige, sperando che ritenga giusto completare il profilo di un prete mite e umile, ma non fino al punto di tacere su principi fondamentali o di criticare chi li difende perché poco gradito politicamente.

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